 La solitudine della cultura I demoni di San Pietroburgo I poteri costituiti, e la loro critica, nel film di Giuliano Montaldo
di Pino Moroni Cinque giorni per un’indagine sull’intolleranza, la violenza, la rivoluzione, la repressione (come da sempre nei film libertari). Ma anche sulla sofferenza della creatività e, soprattutto, sulla dipendenza della cultura dalla storia e dal potere, che regola la storia. Cinque giorni per analizzare la grande distanza dell’individuo-autore dalla politica e dalla gente.
Queste sono solo alcune esemplificazioni di una sceneggiatura –classica- che Giuliano Montaldo ha preparato, con Paolo Serbandini e Monica Zapelli, a partire da un’idea di Andrei Konchalovsky.

Un film che piace per la dinamica del plot narrativo, per la bella interpretazione degli attori-personaggi, e per la giustezza degli ambienti (è stato girato in Russia e, per le scene di interni, a Torino). Infine, per la fotografia di Arnaldo Catinari, mutuata dalle luci caravaggesche di Giordano Bruno, e che resta nel tempo come cifra grafica del regista.
Giuliano Montaldo, maestro di cultura a tutto tondo, ci invita a riprendere in mano i libri e la vita di Fjodor Dostojevskij, ma anche tutta la storia che portò alla Rivoluzione di Ottobre, la rivoluzione russa del 1917.

Il Procuratore Generale Pavlovic (Roberto Herlitza), che parla molto ispirato nel film, dice che la rivoluzione avrebbe alla fine vinto, e che lui cerca solo di ritardarla (57 anni di violenza da ambo le parti, e poi ancora…). Ne “I demoni di San Pietroburgo” si immagina che Dostoevskij stia scrivendo affannosamente un libro e che, per l’ultimatum del suo editore, debba concludere l'opera in cinque giorni. Sta scrivendo “Il giocatore”, un romanzo quasi autobiografico, con l'aiuto di una bellissima stenografa (Carolina Crescentini), che poi diventerà sua moglie.

Negli stessi cinque giorni viene contattato da un terrorista pentito, che lo prega di fermare i suoi ex compagni e la sua amata Alexandra (Anita Caprioli), che sono in procinto di attentare la vita di un parente dello Zar. La storia del film si sviluppa nel girovagare dello scrittore tra studenti in rivolta, sedi di polizia, palazzi di nobili, dignitari e militari, lungo strade semibuie e semideserte, con carrozze sempre in movimento. Il tutto è intervallato da flashback sui dieci anni in cui lo scrittore era stato a sua volta arrestato, condannato a morte e inviato ai lavori forzati in Siberia. Il messaggio più importante del regista Giuliano Montaldo è quello della forzata convivenza dell’”Autore” di ogni epoca con il potere. Ed anche quello di non essera capito dalla gente. Emblematiche sono le relazioni con l’ispettore Pavlovic, con le nobili signore russe che comprano i suoi libri, con i circoli del regime in cui si aspira a far cultura.

Dice l’insinuante Ispettore generale, difendendo Dostoevskij dal bieco e scorretto editore: “Favorire e proteggere la cultura è compito dello Stato” (in realtà intende la cultura protetta). E poi ancora: “I vostri romanzi che sembrano parlare contro i rivoluzionari, in realtà infiammano di più dei proclami terroristici” (in realtà ha paura del messaggio popolare).
Illuminante al riguardo è il rapporto dello scrittore con i giovani studenti arrabbiati che lo disconoscono perché ha tradito i suoi ideali giovanili. Non capiscono la sua profonda umanità e il suo rapporto con Dio, maturati in anni di sofferenza in Siberia, insieme ad assassini e ladri analfabeti, uomini diseredati che non possono capire chi della cultura ne ha fatto un lavoro.

Ho visto Giuliano Montaldo, insieme a loro, nel cercare di migliorarli, sollevarli, salvarli. Uscendo dal cinema, ho ripreso in mano i libri di Dostoevskij, ho cercato nei suoi libri i valori ‘universali’ e la loro attualità.
Per capire ancora meglio la tristezza degli “Autori” moderni, assuefatti ad un regime senza cultura, che accusa chiunque la vuole migliorare di trattare gli altri come persone di serie B. Per far diventare tutti di serie B.

(Lunedì 28 Aprile 2008)
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