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 Un piccolo, importante, film israeliano Qualcuno con cui correre Un altro messaggio forte, dopo "Juno" e "Once"
di Piero Nussio  E tre. Questa è ormai una mia mania. C’è un filo rosso che lega tre film che più lontani non potrebbero essere l’uno dall’altro. In mezzo a tante pellicole di vario valore, ma tutte pessimisticamente adattate al mondo «così come è», ci sono –a mio parere- tre film che sembrano condividere una diversa visione della vita.
Sono Juno (Jason Reitman, USA, 2007), Once (John Carney, Irlanda, 2006) e, terzo ad arrivare sui nostri schermi, Qualcuno con cui correre (Mishehu Larutz Ito, Oded Davidoff, Israele, 2006).
Tre film diversi, provenienti da differenti angoli di mondo, con l’unico tratto in comune di essere piccole opere, con un’accidentata vita distributiva. Il film israeliano, ad esempio, giunge in Italia solo perché è tratto dal romanzo omonimo del famoso scrittore David Grossman. Vive una vita stentata nelle nostre sale cinematografiche, diffusa in poche copie e senza alcuna pubblicità. Per di più i critici che ne hanno parlato (fra gli altri, Roberto Nepoti su La Repubblica) lamentano una scarsa qualità tecnica delle immagini, quasi fosse un vezzo stilistico del regista ed una sorta di ostentato “dilettantismo”. A me sembra piuttosto, considerata la poca fama del regista Oded Davidoff e la scarsa storia dei produttori (B&K film) una scelta obbligata, dovuta alla povertà di mezzi e alla voglia girare in esterni. Vero, il film non ha un’immagine nitida e patinata, e le scene esterne in notturna denunciano scarsità di illuminazione. Ma, a fronte della spontaneità della pellicola, preferisco perdere un minimo in qualità tecnica.
Poi l’occasione è importante: un film girato a Gerusalemme, che per una volta ci racconta la vita vera degli abitanti della città. Immagini che, per una volta almeno, non sono del conflitto coi palestinesi, o della mistica dei luoghi sacri, o dei bombardamenti e degli attentati. Qualcuno con cui correre ha immagini di ragazzi, che agiscono nell’esistenza di tutti i giorni, con problemi simili a quelli degli adolescenti di qualsiasi altro paese al mondo. Un po’ di trama, tanto per dare concretezza ai nostri discorsi. Asaf (Yonatan Bar-Or), ragazzo di sedici anni timido e impacciato, corre per Gerusalemme trascinato da un cane, una bellissima labrador chiamata Dinka.

Dinka è stata presa dall’accalappiacani, e Asaf, che fa un lavoretto estivo alla Protezione animali, è stato incaricato di trovare il suo padrone. L’altra protagonista, tra flashback e storie parallele, è Tamar (Bar Belfer), la ragazzina proprietaria del cane, anche lei giovanissima, con il cranio rasato, una chitarra e due scarponi.
La Gerusalemme che il film ci mostra è del tutto fuori delle convenzioni quella. Una grande città (come tante altre) dove i ragazzi vivono scollati dalle famiglie, la musica occupa molta parte della loro vita; circolano droghe e alligna la malavita. La storia narrata ricorda "Oliver Twist"; salvo che, qui, i ragazzi che raccolgono l´elemosina per il turpe sfruttatore Pesaci (Tzahi Grad) si esibiscono come musicisti di strada. Tamar compone, canta e suona la chitarra, e suo fratello Shai (Yuval Mendelson) suona le tastiere. Ma Pesach tiene lui e gli altri musicanti legati a sé con la dipendenza dall’eroina.
È una specie di favola moderna, quella che il film ci narra. Il “bosco degli orrori” è una città dove regna la violenza, e gli incantesimi delle “streghe” sono l’opera degli spacciatori e dei malavitosi.

Ma, in questa favola da incubo, oltre al testardo e sprovveduto Asaf ed a qualche bravo personaggio che farà avvenire il lieto fine, c’è una ragazzina forte come un macigno. Mentre l’affannato Asaf la rincorre insieme al cane, noi vediamo apparire la ragazzina Tamar, e seguiamo le sue gesta: la vediamo radersi i capelli a zero, e poi percorrere senza motivo apparente le strade di Gerusalemme, cantare e mendicare.
Non è facile capire cosa stia accadendo, e non vogliamo togliere allo spettatore la sorpresa di veder crescere sotto i propri occhi la (piccola) statura della ragazzina. Ma il paragone con Juno, altra ragazzina alle prese con problemi molto più grandi di lei, viene immediato alla memoria. È strano: a prima vista la ragazzina israeliana e quella americana sembrano lontane e, insieme, vicinissime. Juno è, per sua spiritosa definizione una “balena spiaggiata”, deformata dalla acerba gravidanza. Tamar, che si rade a zero e gira la città con gli scarponi militari, è altrettanto poco aggraziata e femminile. Juno però va a scuola e continua una vita borghese, mentre Tamar suona, canta e dorme per strada. Eppure sono molto simili, entrambe sbruffone e –allo stesso tempo- tenerissime. Tutte e due incontrano, alla fine del film, il ragazzo della loro vita: Juno e Bleeker fanno un duetto di canto e chitarra, mentre Asad si limita ad apprezzare Tamar che da sola canta accompagnandosi con la chitarra.

La musica, le canzoni, sono il più forte collegamento di entrambi i film con l’irlandese “Once”. Anzi, fra Tamar e Glen -il protagonista di Once- c’è in più il suonare per strada, raccontando per pochi spiccioli ai passanti i segreti della propria vita. Dublino è meno violente (e più umida) di Gerusalemme e Glen è un “libero professionista”, non un drogato come Shai o uno sfruttato come Tamar.
Ma il messaggio forte dei tre film è –strano a dirsi- il medesimo, nonostante le distanze geografiche, le lontananze climatiche, ideologiche e sociali. Il messaggio è “once”, “una sola volta”. Non è in discussione la possibilità di divorziare (come in Juno non era nemmeno in questione il diritto all’aborto), né è un messaggio confessionale quello che viene dalle tre pellicole. «Una sola volta» si vive, ed è bene farlo ad occhi aperti, in piena consapevolezza. Tamar ha una missione da compiere, che presumibilmente si è data da sola, senza il consiglio di nessuno. Asad ha anche lui una missione da compiere, un compito (apparentemente meno importante) che gli hanno dato al canile comunale.
Juno e Bleek –in “Juno”-si sono dati il compito di saper vivere le loro vite, e possibilmente di farlo insieme. Glen e Markéta –in “Once”- invece traggono forza dal loro “breve incontro” per ricostruire dei percorsi di vita che si erano momentaneamente interrotti, delle coppie che si erano perse. Non importa, sembrano dire insieme i tre film, le scelte ed i compiti che ci diamo. Importa che siano stati scelti da noi stessi, e perseguiti con coerenza e lucidità. Le convenzioni, le ideologie, le costrizioni ambientali, le violenze e le mafie possono rendere la strada più ardua, ma non interrompono il camino di chi lo ha intrapreso con determinazione.
E se canta, accompagnandosi con una chitarra, è anche meglio…
(Mercoledì 3 Dicembre 2008)
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