 La strage degli ufficiali polacchi Katyn Finalmente Wajda ha potuto raccontare la verità
di Pino Moroni Andrzej Wajda, 83 anni, polacco, dai suoi esordi negli anni ’50, dietro la macchina da presa, ha sempre fatto film di alto impegno civile e politico. Da ricordare I dannati di Varsavia (1957), storia di dolore e di morte di una nazione invasa ed oppressa dai tedeschi. O Cenere e diamanti (1958) storia del dramma di giovani traditi nel dopoguerra dalla politica che si allinea alla lunga ed oppressiva dominazione sovietica (circa 45 anni).
Con Katyn Wajda, dopo il periodo sindacale dell’Uomo di marmo (1977) e dell’Uomo di ferro (1983), riprende i suoi temi più cari e li raccoglie in un film autobiografico, dilatando la storia della sua famiglia dentro la storia della Polonia, dal 1939 alla caduta del muro ed alla rivelazione di tutta la verità, a lungo mistificata. La verità sul genocidio nel 1940 da parte dei Russi di 15.000 prigionieri militari e di altre migliaia di rappresentanti della classe dirigente polacca. Il tutto pianificato da Stalin e dal Politburo ed eseguito dalla polizia politica NKVD, al fine di governare senza problemi la Polonia invasa. La verità sulla continua eliminazione di patrioti polacchi quando, con il patto di Varsavia, la Russia inizia una dominazione sulla Polonia finita solo negli anni ’90.

Il padre di Wajda era un ufficiale dell’esercito giustiziato dai russi a Katyn e alcuni dei suoi parenti sono stati imprigionati ed uccisi nel dopoguerra. Ma quello che maggiormente emerge nel film sono le verità nascoste e la voglia dei sopravvissuti di abbattere la più grossa menzogna sulla scomparsa di tanti polacchi. La storia, avallata da tutti i paesi occidentali, ha detto che il massacro di Katyn era stato effettuato dai tedeschi nel 1941, quando avevano invaso la Russia. I tedeschi avevano rivelato nel 1943 le stragi compiute dai Russi, ma poi, perduta la guerra erano stati a loro volta accusati di tali nefandezze.

Il film segue la storia di Anna, che rappresenta la madre di Wajda, e attende per anni il ritorno del marito. La storia sua e di altri parenti ed amici che si oppongono alla dominazione poliziesca sovietica del dopoguerra e vengono eliminati costituiscono la trama portante del racconto. Ma dove il film diventa grande è nella parte finale dove la immane strage, per la prima volta, viene narrata da Wajda, con forte realismo e con profondo pathos. E finalmente una verità nascosta e mistificata viene rivelata in tutta la sua crudezza. Una lunga sofferenza viene allora esorcizzata dalle immagini crudeli di migliaia di giustiziati con un colpo di pistola alla nuca, e poi seppelliti in fosse comuni a tre strati di cadaveri.

Mentre pensavamo al regista polacco Wajda, che non aveva potuto raccontare questa personalissima storia per tutta la vita, ci siamo chiesti perché questo bel film abbia avuto una distribuzione così limitata. È come se queste sacrosante denunce non si possano ancora fare. È la vischiosità della verità, che deve superare anni ed anni di menzogne, mentre la facilità di revisionismi strumentali e di leggende globali regola il mondo.
Grazie Wajda di aver fatto questo film prima che per l’umanità non conti più niente.

(Mercoledì 18 Marzo 2009)
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