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A “Lebanon” del regista israeliano Samuel Maoz

Un Leone meritato

All'italiano "Cosmonauta" il premio della sezione controcampo


di Francesco Castracane


Venezia. La giuria del 66° festival del cinema di Venezia ha premiato con un meritato Leone d’Oro il film “Lebanon”. Storia claustrofobia, recuperata dai ricordi di guerra del regista. Un gruppo di carristi ha il compito di “ripulire” un villaggio libanese durante la prima guerra del Libano nel 1982. I soldati di Maoz non amano la guerra e vorrebbero stare da tutt’altra parte. Quella guerra non è la loro guerra e l’unico obiettivo che interessa loro è quello di tornare a casa vivi. Il mondo esterno è visto attraverso il mirino del carro armato. Non ci troviamo di fronte alla guerra tecnologica e asettica cara a molto cinema statunitense, ma alla rappresentazione della sua parte più umana, meno eroica ma più realista. La macchina da presa raramente esce dall’abitacolo del mezzo corazzato, e quasi ti fa sentire l’odore del sudore, del sangue, della paura. Stringe sui visi dei carristi costretti a sparare sui civili o che devono andare al bagno e non sanno come fare. Nella guerra non c’è nulla di eroico, ma brutalità e abbrutimento. Bellissima la sequenza finale, quasi onirica. In tal senso la dichiarazione del regista rilasciata in occasione della vittoria risulta molto eloquente: “dedico il premio a quelle migliaia di persone in tutto il mondo che sono tornate dalla guerra come me, apparentemente sani e salvi, persone che camminano, si sposano, fanno figli, ma dentro di loro il ricordo rimarrà infisso nelle loro anime. Migliaia di persone che hanno imparato a vivere e a sorridere con il dolore. La morte alimenta la guerra. Quando smetteremo di uccidere smetteremo di fare le guerre. Mi sembra ingenuo ma mi piace credere che il film che ho fatto possa aprire le menti delle persone” Il cinema israeliano, l’altro anno con “Valzer con Bashir”, sta tentando di fare i conti con la propria coscienza.
Il leone d’Argento è stato invece assegnato al film iraniano “Women without men” della regista Shirin Neshat, visivamente molto interessante ma un pò troppo di maniera. Dedicato a tutti i martiri dell’Iran, il film si situa nel 1953, ai tempi del colpo di stato organizzato dagli Stati Uniti per deporre Mossadegh. Il difetto di questo film è rappresentato dalla sua incapacità di utilizzare in maniera definitiva un unico registro narrativo: alla parte di ricostruzione storica, molto ben realizzata, si contrappone una parte onirica e quasi magica, di difficile comprensione. Questo giocare su due elementi rende la storia poco compatta e la disperde su linee divergenti, facendo sfuggire il senso generale del film.



Forse avrebbe fatto meglio, la giuria, a premiare invece con il Leone d’Argento, “Lourdes”, profonda riflessione sul concetto di bontà di Dio.
Complessivamente però, le scelte generali della giuria guidata da Ang Lee sono condivisibili, poiché sembrano essere piuttosto lineari: premiare i film che hanno qualcosa da dire sul presente. In tal senso il premio assegnato al film iraniano vuole essere probabilmente un omaggio alle recenti lotte degli studenti in Iran.
Il premio speciale della Giuria è invece andato a “Soul Kitchen” di Fatih Akin, già acclamato autore di importanti film come la “Sposa Turca” e “Crossino the Bridge”, non eccezionale ma guardabile.
Coppa Volpi assegnata all’affascinante e brava Ksenia Rappoport, per la sua interpretazione dell’ottimo film italiano di Giuseppe Capotondi, “La doppia ora”.
Meritato il premio per il film italiano “Cosmonauta”, visto nella sezione “Controcampo”.
Anche questo anno, si è dovuto assistere al solito stantio e ritrito dibattito sul fatto che non sono stati premiati film italiani. Invece di prendersela con la Giuria, che per fortuna è internazionale, bisognerebbe prendersela con il sistema produttivo cinematografico italiano. La maggior parte delle opere italiane viste al festival sono rivolte al passato oppure al ripiegamento su se stessi. Fanno eccezione “Cosmonauta” che pur declinandosi al passato lo rilegge in chiave ironica e “La doppia ora”.
Di fronte a storie intense, riflessioni sul presente, coraggiose letture del passato, per quale motivo un giurato internazionale dovrebbe farsi affascinare dalle piccole storie di provincia scalcagnata del cinema italiano?


Due film scelti fra la sarabanda di pellicole e autori
Visioni Veneziane: "Cosmonauta" e "Lourdes"
Due registe che illustrano temi sociali

Dove sono finiti trent'anni di cinema italiano
Di Me Cosa Ne Sai
Analisi amara e realistica sulla fuga dalle sale



(Domenica 13 Settembre 2009)


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