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"Le età della vita" al 5° Lanuvio Day

La strada del Lanuvio Day

Riflessioni "filosofiche" all'incontro d'autunno


di Piero Nussio


«C’è solo la strada su cui puoi contare, la strada è l’unica salvezza». Queste parole di un vecchio spettacolo di Giorgio Gaber mi venivano in mente –ironiche- mentre percorrevo l’Appia e la Nettunense, sabato scorso, per andare alla quinta edizione del “Lanuvio Day”.

I negozi, i centri commerciali, gli outlet, i ristoranti panoramici, i villini a schiera, le fabbriche di lampadari, le esposizioni di divani, i centri benessere che ormai hanno inquinato irrevocabilmente i dintorni di Roma –e di qualunque altra città- mi facevano pensare al “benessere”, a questa “civiltà” nella quale ci siamo impigliati.

Consumismo sfrenato, e al tempo stesso finto. Consumismo alla vergognosa, fatto solo di sconti e di “prezzi di fabbrica”, come se non sapessimo bene tutti che per comprare quella roba in fabbrica dovremmo arrivare almeno a Shanghai.

Le gite “fôri porta” ricoperte di porchetta e di saloni per banchetti, un senso di sazietà a poco prezzo, l’acido delle gastriti fritto nella pastella… Pensieri poco allegri, mentre ero in coda ai semafori e attraversavo i “centri abitati”.

 

Poi il cinema ha preso il sopravvento, ed ho cominciato a vedere tutta quella fantasmagoria commerciale come se fosse una lunga, interminabile quinta da teatro di posa. Dietro gli outlet c’era ancora la campagna romana: quello che percorrevo era solo un teatro di posa (e d'altronde mi ero da poco lasciato Cinecittà alle spalle). Cinecittà Due è un centro commerciale; allora quello era Cinecittà Tre, un immenso parco commercial-gastronomico partorito dalla mente malata di un Fellini redivivo per farci capire che grosso guaio stavamo combinando. Io ero un figurante, davanti a me c’era la sportiva decappottabile dove recitavano Mastroianni e la Ekberg, poi incrociavo la millecento del Patata, la Lancia di Franco Fabrizi e Anouk Aimée, la seicento dei paparazzi col tetto apribile e le loro Rolleiflex col flash. Mi tornava in mente la canzone di Gaber, ma stavolta il ritmo era quello saltellante delle musiche di Nino Rota.

 

La giornata era splendida: in America la chiamano “estate indiana”. Noi non la chiamiamo, è normale che a fine settembre faccia bello, e che si vada ai Castelli. Non è normale, invece, che si arrivi in una sorta di piccolo castello rurale a Lanuvio, e ci si chiuda lì in conclave per una maratona cinematografica. Ma, con il gruppo di Visioni, quasi niente è normale. Un gruppo di persone che parla poco –specie nei momenti “istituzionali”- e che privilegia invece il senso della vista rispetto a quello dell’udito. Ma che non per questo rinuncia a fare filosofia. Il tema del quinto Lanuvio Day era nientemeno che “Le età della vita”, un titolo dove la retorica si annida ad ogni passo, peggio del sentiero dei Comanche che solo John Wayne si azzarda a percorrere.

 

Stand by me: River Phoenix e Wil Wheaton

 

Perché John Wayne è il mito dell’avventura allo stato puro, e non si lascia intimorire dal pericolo in agguato. Visioni è come lui: prende i film, li mette insieme senza troppe sovrastrutture e con grande libertà. Dalla loro unione, dalle immagini rese fluide e scorrevoli, esce fuori –in quel rimescolamento- molto più di quello che i singoli autori avevano “messo in scena”. La via Appia e tutto il suo rivoltante commercio –già Fellinizzata autonomamente- si è cominciata a mescolare e confondere con il sentiero nei campi che percorrono i ragazzini di Stand by me nella loro grande avventura alla scoperta di un cadavere. Immagini che non potrebbero essere più diverse, fra i sobborghi commerciali della grande città e i dintorni avventurosi di un paesino del middle west; ma gli occhi non hanno bisogno di tutta la logica di un discorso, le immagini di due strade si sovrappongono e si confondono. Punto e basta.

 

La logica arriva dopo, semmai, a trovare che in fondo il nostro “viaggio di esplorazione”, ex bambini con tanta voglia di scoprire il mondo, non si svolge più con i ritmi e il contatto della natura, ma con le logiche di un mondo che ha inventato nuove streghe, boschi, nonne e cappuccetti rossi. I riti di passaggio sono mutati, e già quelli di Stand by me, resi da Rob Rainer (1986) a partire dai ricordi di Stephen King, non erano più quelli resi celebri dalla favola dei Fratelli Grimm. Ma la stradina nel bosco, che costeggia la ferrovia, dove il treno ti capita addosso proprio mentre stai attraversando un terribile ponte, dove la vita ti capita addosso con tutte le sue difficoltà e orrori proprio mentre stavi vivendo un sogno romantico di avventura, quella non cambia né con il tempo né con l’età. Ci sono dei momenti in cui bisogna far ricorso a tutte le proprie capacità di sopravvivenza, in cui bisogna affrontare il pericolo, la violenza e la sopraffazione. Ed è molto più facile, oggi, che capiti in un centro commerciale dell’Appia che non in un bosco.

 

Due per la strada: Audrey Hepburn e Albert Finney

 

Più difficile, perché più subdolo, è affrontare i pericoli dell’età matura. La strada che mi hanno proposto a Lanuvio è quella di Due per la strada, commediola leggera di Stanley Donen (Two for the road, UK, 1967). “Commediola leggera”: la definizione è corretta ma fuorviante. Audrey Hepburn e Albert Finney, cosa vi aspettate che interpretino? E Stanley Donen, cosa avrebbe dovuto dirigere dopo Arabesque, Sciarada, e L’erba del vicino? Ma, evidentemente, il vento di rivolta del ’68 cominciava già a far sentire la sua brezza nella Gran Bretagna del 1967. Audrey Hepburn stava per divorziare da Mel Ferrer, e forse è vero che ebbe una piccola storia con Albert Finney mentre giravano questa pellicola. Il film comunque trasmette –proprio perché non lascia mai il suo tono di commedia frizzante- tutte le inquietudini del ’68 incombente. Si rompono i legami e le classi sociali che avevano regolato il mondo per millenni, e la vita di una coppia appare molto più vuota e zoppicante di quanto ci si sarebbe potuto aspettare da un’opera di solo qualche anno prima. «Whatever works» (“Basta che funzioni”) si direbbe oggi rubando il titolo al film della rinascita di Woody Allen, ma negli anni sessanta c’era ancora il mito della sacralità della famiglia, e della prole che ne derivava.

 

Famiglia pencolante, e prole ingombrante, quella di Due per la strada. Forse finirà per reggere, la coppia, e i due non divorzieranno –come invece stavano facendo nella vita-, ma il film non dà affatto questa solida idea. Anzi, in una fantasticheria di flashback e di montaggi incrociati, fa perdere il senso del tempo, e quindi il senso stesso della domanda. Se la storia è una di quelle del “giardino dei sentieri che si biforcano” (come avrebbe detto Borges), se non c’è un inizio e una fine riconoscibile, ma allora che senso ha l’happy end, e in generale che senso hanno tutti i nostri sforzi? È questa, proprio questa, la “puzza di zolfo” del ’68. Il gioco con il tempo non è quello sussiegoso de L’anno scorso a Marienbad (Alain Resnais, 1961), ma quello oramai liberato di Stanley Donen e delle sue commedie. Molto più pericoloso e duraturo.

 

La strada imboccata dai personaggi, dal cinema, e dalla storia dell’umanità non sarà più la stessa semplice strada lineare di chi si dava un obiettivo e cercava di perseguirlo. “Senza capo né coda”, come dicevano gli anziani ai miei tempi, e non sapevano di dire una profonda verità. E la strada del Lanuvio Day, quella che mescolava l’Appia, Fellini, il sentiero e il treno? Figuratevi. Gli occhi andavano per conto loro, e la strada si andava popolando delle automobili-feticcio di Due per la strada: la familiare degli amici, la MG usata, la Austin spider –io ne possedevo una simile-, la Mercedes pagoda, la Bentley dei ricconi in Costa Azzurra. Poi io ci aggiungevo del mio, come al solito: la Ford nel mio futuro, gli odiati SUV, la piccola Yaris, le macchine parcheggiate nell’aia di Lanuvio, la coda delle automobili che mi avevano bloccato al semaforo di Pavona, … Fellini tornava, con gli ingorghi di 8 e 1/2, ma anche Jacques Tati col finale del suo Playtime e il carosello delle auto intorno al rondò. Incubi, vagamente, ma sornioni e leggeri, perché la situazione –da allora- è troppo drammatica per poterla prendere sul serio.

 

Una storia vera: Richard Farnsworth

 

Come andrà a finire? Andrà a finire come nella storia di Alvin Straight, Una storia vera. David Lynch l’ha girata nel 1999, sul finire del millennio. Se Stanley Donen, il re della commedia leggera, ha sentito il vento del ’68 ed ha girato un film spezzato, contorto e a-temporale, David Lynch che è il re delle opere contorte, assurde e senza senso, ha sentito l’urgenza della storia ed ha girato questo film in sequenza.

Tradotto, per chi non è tenuto a conoscere tutte le technicalities del cinema, Una storia vera è stato girato una scena dopo l’altra, esattamente come vediamo noi lo scorrere del film, e il montaggio si è limitato ad essere una semplice giustapposizione di scene, tutte girate l’una dopo l’altra, in sequenza. Ma anche senza conoscere questa caratteristica realizzativa, la fisicità del film si impone con tutto il suo realismo. La cittadina di partenza (senza tempo e senza storia come quella di Stand by me) è immersa nel midwest agricolo e nei riti vani dei suoi abitanti, specie quelli ancora più inutili dei pensionati che aspettano la morte davanti a una birretta. E se quella è stata una terra di cervi (come ai tempi de Il cacciatore, The deer hunter di Michael Cimino 1978), oramai i pochi esemplari rimasti attraversano spauriti la nazionale per finire investiti dalle automobili e il ricordo più vivo della loro antica presenza è nel colore verde delle mietitrebbie e dei trattori John Deere.

 

“La storia semplice, diretta” dice il titolo originale, concedendosi l’unico vezzo intellettuale fra il (vero) cognome del protagonista e il suo significato in inglese. Una storia vera, dice il titolo italiano, traducendo correttamente un titolo intraducibile e aggiungendovi un significato: quella raccontata è “una storia vera” non soltanto perché è realmente accaduta, ma perché fisica, oggettiva, reale, concreta. La strada, il terreno che percorre Alvin Straight con la sua motofalciatrice e che la macchina da presa spesso inquadra, è quella realmente da percorrere –metro dopo metro- con un mezzo lento e inadatto, ma l’unico che il vecchio può utilizzare. Nell’America di oggi –e comunque in tutto il mondo- lo spazio sembra aver perso significato, le città si sono dilatate a macchia d’olio sul territorio, i cinema e i negozi sono a decine di chilometri, insieme agli outlet e ai ristoranti lungo quell’Appia che percorrevamo all’inizio.

 

Poi la televisione ci fa apparire tutto il mondo come fosse dietro l’angolo, e sappiamo tutti cosa fanno a Seattle la sera quando non dormono. «È il virtuale, baby» sembrano dire tutti: la vita vera si volge a Facebook e YouTube, mica sotto casa. Poi basta un granello di sabbia, e tutto si inceppa. Non c’è bisogno di essere vecchi come Alvin Straight, basta avere la macchina dal meccanico. Basta che si rompa l’hard disk del computer, basta un guasto alle linee telefoniche. Basta un ingorgo sulla via Appia, o al semaforo di Pavona. Da vecchi è ancora peggio, perché gli orizzonti si restringono naturalmente (e perché cominciano i dolori alle gambe o i problemi agli occhi). Ma in questa vita senza senso, come quella dei “due per la strada”, capita talvolta che ci sia una cosa vera, un’azione che va comunque compiuta e portata a termine, costi quel che costi. Se succede, allora l’uomo a cui capita può considerarsi fortunato. Una strana forma di fortuna, in cui magari si deve destreggiare con una falciatrice viaggiando per due mesi e dormendo al ciglio della strada. Rischiando anche la vita, o un incidente grave.

 

Ma la vita, quella che ti chiama “on the road”, se hai la fortuna e la capacità di andartene “sulla strada” (insieme a Jack Kerouac e Lawrence Ferlinghetti), allora puoi dire di averla sentita fremere fra le tue dita. E non importa se per muoverti hai bisogno di due bastoni (come il vecchio Alvin Straight) o se soffri di un cancro terminale alla vescica come Richard Farnsworth, l’attore che lo interpretava. Se sei il ragazzino di Stand by me (River Phoenix, dal breve e accidentato futuro) ti capita di vivere queste sensazioni da adolescente, e poi –magari- di autodistruggerti. Se sei un vecchio coriaceo come Alvin Straight (o come Richard Farnsworth, controfigura di Roy Rogers e Gary Cooper) lo fai tra i settanta e gli ottant’anni, non ha importanza.

 

E la strada? Mi vedevo scorrere sotto, come nel midwest in falciatrice, quelle strade di cemento rugoso. Invece stavo sull’Appia in un tripudio di luminarie kitsch: le “fabbriche” di lampadari davano il meglio di se stesse. Ma in non ci pensavo e canticchiavo: «C’è solo la strada su cui puoi contare, la strada è l’unica salvezza». Solo che, stavolta, non c’era un briciolo di ironia.

 

 

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(Lunedì 28 Settembre 2009)


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