 Buona la tecnica per un "noir" con poco senso Shutter island Scorsese nasconde sotto le citazioni la sua mancanza di idee
di Pino Moroni Il pezzo iniziale è d’antologia. 1954: un traghetto nella nebbia che scopre la vista di un’isola misteriosa. Due uomini che fumano e preparano lo sbarco. Poliziotti armati sul molo. E poi dopo una panoramica della cupa isola dall’alto con un villaggio portoghese ed una fortificazione sul punto più alto, una serie di cancelli che si aprono e si richiudono dietro la macchina. Non c’è via di fuga. Quando si entra nell’Ospedale, come lo chiama il Direttore, ovvero nel manicomio criminale, non se ne esce più. Claustrofobico.
Ma i due uomini Teddy Daniels (Leonardo Di Caprio) e Chuck Aule (Mark Ruffalo) sono due agenti federali in missione speciale. Debbono indagare sulla scomparsa da una stanza blindata di una pericolosa malata mentale, Rachel Solando, che in un impeto di crisi maniaco depressiva ha annegato i suoi tre figli. Martin Scorsese, quasi settantenne, ha fatto frutto della sua esperienza delle atmosfere del cinema americano (Viaggio nel cinema americano, 1995) noir, thriller, horror degli anni ’40 e ’50 dei registi Fritz Lang, Robert Siodmak, Jacques Tourner.

Per certi aspetti clinici e terapeutici ha invece riecheggiato Il corridoio della paura (1963) di Samuel Fuller, in cui un giornalista decide di farsi ricoverare in un manicomio per scoprire un delitto e comincia ad avere allucinazioni, o La fossa dei serpenti di Anatole Litvak, in cui una donna sposata non ricorda più la sua vita e suo marito e viene sottoposta a terapie violente finché un dottore non applica il metodo freudiano e la guarisce.
Il film di Scorsese, tratto dal libro "L’isola della paura” di Tennis Lehane (2003) è forse un thriller del genere poliziesco gotico. Scorsese non usa comunque gli ingredienti più horror, quali gli elettroshock, le camicie di forza, e le violenze, perché i dottori, impersonati da Ben Kingsley e Max Von Sidow, sono specializzati in cure raffinate e sperimentali che applicano sui loro più pericolosi malati di mente. Il dubbio che si pone però ai federali è se tali esperimenti siano legali.

Il film intriga per tutta la prima parte, intessendo trame che vanno dalla scoperta dei massacri dei tedeschi a Dachau, allo spionaggio della guerra fredda con lavaggi del cervello (Va ed uccidi di John Frankenheimer 1962); da apparizioni con messaggi profetici della moglie di Teddy Daniels, bruciata in un incendio (il cui autore potrebbe essere ricoverato nella stessa isola), a sogni con parentesi oniriche come nel miglior Hitchcook. Ed infine allo scatenarsi della natura con passaggi di tempeste ed uragani che lasciano un mondo desolato come dopo la violenza della follia. Film ondivago nei generi con un pizzico di furbizia cinefila.
Tante complicazioni e tante citazioni per coprire forse una mancanza di idee originali, che connota il presente periodo cinematografico, fatto solo di ricerca tecnica e di effetti speciali. Nella seconda parte, quando il plot narrativo deve raccogliersi in un risultato univoco, la lenta parte narrativa sul fallimento degli esperimenti freudiani e la soluzione verso la lobotomia porta solo ad una conclusione dubitativa convenzionale: «Meglio vivere da mostri o morire da uomini?».

Il film si riduce così ad una estetica manipolazione di un certo cinema "noir" psicanalitico anni ’50 senza aggiungere nulla di nuovo rispetto alle invenzioni di quegli anni.
Il meglio rimane, come già detto, la tecnica della fotografia di Robert Richardson, le scenografie di Dante Ferretti, gli effetti speciali, anche musicali, di R. Bruce Steinheimer e la selvaggia impervia natura della costa dell’isola di Peddocks nella baia di Boston, Massachusetts (Shutter Island).
(Martedì 23 Marzo 2010)
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