 La picaresca compagnia delle cameriere Le donne del sesto piano Un raffinato film francese
di Pino Moroni Philippe Le Guay (1956), regista de “Le donne del sesto piano” è figlio di un barone e cognato del politico francese Dominique de Villepin, e ciò nel suo film si vede. Un film educato, raffinato, elegante, intelligente e leggero.
Una immagine, così disincantata e romantica del pre-sessantotto, poteva descriverla solo chi aveva vissuto negli anni ’60 tutti i formalismi ed i tabù morali e sociali di una società benestante e nobile, già agiata e naufragata nel benessere. Alla ricerca di qualcosa d’altro in senso libertario, se non nel proprio contesto familiare e di lavoro, troppo ingessato, almeno in quello di un sottoproletariato immigrato e trapiantato dalla Spagna di Franco, più opprimente, ma meno tradizionale e conservatore della Francia di De Gaulle.

Jean Louis Jobert (il bravo Fabrice Luchini) è un esperto finanziario, con moglie da salotto e due figli in collegio esclusivo. Quando nella sua soffitta o mansarda si installano un gruppo di vocianti simpatiche domestiche spagnole ed una di queste, la bella Maria, entra in servizio nella sua casa, Jean Louis aiuterà il gruppo nelle sue difficoltà e ne entrerà a far parte a tutti gli effetti, dopo una separazione, solo provvisoria, da sua moglie gelosa e conformista. Nascerà una forte simpatia verso Maria, che però tornerà a Burgos, suo paese, alla ricerca di un figlio perduto. Solo dopo tre anni, maturata la sua libertà ed abbracciata la modernità, Jean Louis sarà in grado di andare alla ricerca di Maria, per rivelarle il suo amore.
Le Guay (Il costo della vita, 2003) esprime, con una leggerezza di significati, profondi stati d’animo e cambiamenti di idee con la collaborazione di attori bene in parte. A cominciare da Patrice Luchini (Confidenze troppo intime, 2003) con la sua forte espressività (ha lavorato tra l’altro con Eric Rohmer, Claude Lelouch e Philippe de Broca) delinea magistralmente il cambiamento di un borghese annoiato ma voglioso. La moglie Sandrine Kinberlain, ben calata nel suo ruolo di arida e sciocca borghese, con i suoi vestiti alla moda anni ’60, con salotto stile impero e tulipani bianchi nei vasi cinesi, prototipo di una Francia conformista e puritana.

La domestica Maria (Natalia Verbeke) che, con la sua faccia spagnola, il corpo flessuoso ed un sorriso dolcissimo (è l’ultima commovente immagine del film) tiene forte la rotta del film, come demiurgo di una profonda evoluzione morale e sociale.
Ed infine la picaresca compagnia delle altre cameriere alla ricerca dello svago, del cibo e dei soldi. Una corte dei miracoli dirompente in una società senza scopi. La domanda che viene dopo aver visto il film, con il senno del poi (il ’68 è lontano ed il mondo si è ingessato di nuovo solo nelle ricerca del denaro e del benessere) è se tutta la libertà che i personaggi hanno tanto cercato sia positiva. La rottura di un ordine dominante, la perdita di ogni ruolo e senso logico, alla ricerca di una vita fatta di incertezze è esattamente il contrario di quello che il momento presente sta invece faticosamente ricercando.

Alla fine, nel film, mentre i borghesi cercano di lasciare quel tran tran superfluo e banale della loro vecchia vita per una più libera e provvisoria, gli immigrati invece attraverso i risparmi e gli investimenti finanziari cercano di raggiungere una nuova vita da borghesi.
Come sta succedendo anche oggi: all’improvviso si butta via tutta la vita fatta e ci si mette con una badante in cerca di fortuna.
(Mercoledì 20 Luglio 2011)
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