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Pupi Avati ripercorre la sua carriera cinematografica

La Terra del Diavolo

In occasione della presentazione del libro a Roma


di Oriana Maerini


Roma. Un altro doveroso omaggio al maestro Pupi Avati arriva, durante le feste natalizie, con la presentazione, avvenuta ieri presso la libreria Mondadori di via Piave, del libro La Terra del Diavolo a cura di Claudio Miani e Gian Lorenzo Masedu, secondo volume della collana Voci di Dentro edito da Asylum Press Editor e Imp[O]ssible Book. Si tratta di un interessante e ben confezionato tributo alla numerosa ed eclettica cinematografia del regista bolognese composto da quattro saggi tematici ( fra i quali segnaliamo "Pupi Avati - Un cineasta di genere" - firmato dal critico Francesco Lomuscio) che analizzano, in particolare, il lato oscuro, misterioso e fantasmagorico del suo cinema che prende spunto dall'humus dalla sua terra d'origine e segue l’evoluzione sociale che ha segnato il nostro paese sin dagli anni del dopoguerra. Un viaggio che parte dalle prime sperimentazioni filmiche di Balsamus, l’uomo di Satana e Thomas e gli indemoniati e giunge sino "Il signor Diavolo, ultima fatica del regista.

Pupi Avati con Claudio Miani in un momento della presentazione



Avati, presente all'incontro con il pubblico, ha cosi stigmatizzato la genesi dell'opera:


“ Confesso di aver provato, fin da subito, un’enorme diffidenza verso questo progetto. Ho accettato solo perché Claudio Miani era molto simpatico. Invece, devo dire, che questo è uno dei libri più belli che abbia visto, fatto con una grandissima cura dei dettagli, anche da un punto di vista editoriale e di impaginazione. Eccellente il fatto che gli autori abbiamo inserito anche i miei schizzi, appunti e disegni riferiti al mio ultimo film Il signor Diavolo. Sono orgoglioso di questo omaggio e ci tengo a mostrarlo alla mia famiglia”.


La presentazione del libro ha rappresentato per gli estimatori del suo cinema un'occasione unica per capire, dalla voce del maestro, il legame che si è instaurato, nell'arco della sua lunga carriera, fra questo straordinario cineasta ed il mondo della celluloide:

“ Il mio è un cinema che nasce nel '68, con tutte le prerogative di quegli anni. In cui si pensava che la fantasia potesse andare al potere. ‘ Opera aperta ’ di Umberto Eco ci ha segnato molto in quegli anni e ci ha convinto del fatto che più un’opera era aperta, più era capace di entrare in sinergia con lo spettatore che l’avrebbe poi completata. Niente di più utopico. Abbiamo vissuto un grosso equivoco. Il cinema è uno strumento assolutamente popolare e un film che non arriva al pubblico non ha alcun senso.
Il mio ‘inizio’ è stato davvero un disastro e viverlo in provincia è stato ancora peggio. La provincia è davvero cattiva. Sono stato costretto a scappare da Bologna, dove ero visto come il fallito della situazione, e sono venuto a Roma che ha il grande dono dell'indifferenza. Proprio qua ho avuto la grande fortuna di incontrare Ugo Tognazzi . Lui venne a lavorare con me che ero un fallito. Sia lui che Paolo Villaggio . Ho fatto un film con loro due, grazie al quale poi non mi sono più fermato e ho avuto modo di fare carriera”.


Il maestro ha, inoltre, spiegato al pubblico lo stato di vitalità attuale del nostro cinema segnato dalla crisi e dall'evoluzione sociale:

“ Quando ho iniziato a fare cinema, i miei colleghi si chiamavano Lattuada , Fellini … Oggi i cognomi sono ben diversi. Non dico che non ci siano anche oggi eccellenti cineasti ma il problema sono i committenti. l'assenza di produttori lungimiranti. Non c'è più l'ambizione di voler fare un bel film. L'entusiasmo e l'energia di chi pensava di fare il film della vita, ed era comune a tutti all'epoca, oggi non c'è più. Ormai siamo ossessionati dai numeri, da quanti ascolti o quanti incassi si fanno. Le valutazioni ormai sono solo quantitative, non qualitative. E la cosa peggiore è che in questo modo priviamo i nostri figli dell’ambizione”.








(Domenica 22 Dicembre 2019)


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