 La forza critica dell’arte di strada The life is (not) a game dal 2 febbraio al cinema Il pedinamento umano e battagliero di Laika (alla ricerca del muro perfetto)
di Roberto Leggio Maschera bianca da manichino, parrucca rosso fuoco, voce camuffata dal distorsore: Laika (come la cagnetta che fu lanciata nello spazio sullo Sputnik sovietico) ha animato i muri di Roma negli ultimi anni pandemici con poster e murales che urlano la sua indignazione civile (il più noto è quello che immagina un abbraccio tra Giulio Regeni e Patrick Zaki). Due anni di battaglie della street artist dall’identità misteriosa, seguita nelle sue sortite notturne da una macchina da presa, che mescola con spirito pop anche frammenti dei video-appunti di Laika, interviste ai destinatari dei suoi messaggi, materiali di repertorio sugli argomenti “caldi” trattati dall’artista e, naturalmente, le sue opere.

Street art. Verità da strada. Con i suoi disegni, le foto, gli stancil, Laika ( artista che si definisce solo “attacchina”) urla le storture del mondo. Laika incarna la presa di coscienza degli ultimi, in una resistenza civile all’intolleranza, ignoranza, razzismo, al potere cieco dei capi di stato. Dietro una maschera bianca, i capelli rosso fuoco, una giacca a vento bianca e arancioni pantaloni da lavoro, esprime la sua rabbia contro la “cosidetta realtà” armata di un secchio di colla e una scopa. Considerata la Banksy italiana, si aggira di notte nei suo blitz, scegliendo con cura i muri di Roma dove appiccicare la sua opera, con una punta di adrenalina e il piacere dell’odore della colla. Laika è la voce fuori dal coro, venuta alla ribalta per il suo lavoro sull’abbraccio tra Zaki e Regeni (attaccato, criticato, staccato e subito “rifatto” in maniera migliore) e su i migranti, diventata subito un icona della resilienza riconosciuta perfino sui giornali internazionali.

Le sue battaglie quotidiane sono state raccontate da Antonio Valerio Spera, che ha ottenuto la sua fiducia e avuto la possibilità di riprenderla anche durante il lockdown. Un istant movie nel quale l’artista, come una sorta di Robin Hood denuncia con spirito antisistema, velocità di esecuzione e incisività del messaggio, le ipocrisie dei paradossali dello “sbraco enorme” del disagio psichico che si trasforma in violenza verbale messo in risalto dal “Wall of shame” che diventa riflessione sul rovesciamento del vivere civile. Diviso in due momenti ben distinti, il documentario poi si sposta a nel campo di Lipa in Croazia, dove Laika si riappropria del titolo del documentario (il “game” è l’azzardo di chi scappa dalla propria casa) dove un gruppo di migranti pakistani denunciano le violenze subite dalla polizia. E mentre loro raccontano, lei in un moto di indignazione incolla i suoi lavori con lo scopo che le forze dell’ordine sappiano della sua presenza e di essere osservate. The life is (not) a game è nel suo complesso necessario, utile, come le opere di Laika, che da dietro la sua maschera continuerà a criticare i governi e il mondo sempre più alieno a se stesso.
Giudizio: ***

(Domenica 1 Gennaio 2023)
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