 Un film per sole donne? Ancora su "La sconosciuta" Il discusso film di Tornatore
di Pino Moroni  Quando tre , cinque, otto o più donne –e solo donne- ti domandano se hai visto un film, e te ne parlano molto bene, significa che il film dice qualcosa di importante sul mondo femminile. Ciò non accade molto spesso. Per esempio, accadde per Pomodori verdi fritti di Jon Avnet e per Thelma e Louise di Ridley Scott. Ora accade per La sconosciuta di Giuseppe Tornatore.
Malgrado le stroncature, più o meno giustificate, della critica ufficiale, occorre vedere il film e trovare –come per gli altri due- ciò che il cinema al maschile racconta del femminile di ieri, di oggi e di domani.
Non è esagerato dire che Irena, l’ucraina di Tornatore (la russa Xenia Rappoport), richiama le “dark ladies” degli anni ’40 e che Trieste –scenario del film- ricorda le atmosfere del primo dopoguerra e della guerra fredda (Il terzo uomo di Carol Reed) più che i thriller di Hitchcock. I ritratti psicologici, poi, si identificano con quelli di Italo Svevo e Sigmund Freud, in piena ambientazione triestina.
 Mentre gli altri “film al femminile” parlano della donna alla ricerca di qualche emancipazione, ma usano solo degli archetipi, “La sconosciuta” sembra essere “fuori le righe”, ed in questo è più moderna. La sua liberazione dall’inferno di un passato che l’ha marcata passa attraverso prove molto più concrete e brutali di quelle delle eroine americane degli altri due film, troppo idealizzate e romanzate.
Tornatore, con la sua storia a Trieste cerca un nuovo realismo nel racconto e trova una donna “futura”, nuova, cattiva e sensibile, dura e dolente. Dritta al suo scopo, e determinata senza più remore e paure; pronta al sacrificio estremo ed all’espiazione eterna. Questo film, per le donne, non tocca solo le corde della scalata sociale o della libertà sessuale o dell’indipendenza. Tocca qualcosa di profondo, che sta venendo fuori dalle nuove generazioni. Irena è ucraina, extra-comunitaria, ma ciò conta poco. Donne che, ormai senza famiglia, vogliono combattere per il lavoro, difendersi dall’abuso, anche da quello delle stesse famiglie borghesi.
 Donne che debbono quindi attaccare chi le vuole usare, chi gli si para davanti, ed anche chi –nella sua ipocrita tranquillità borghese- può diventare loro preda.
L’immagine più rappresentativa di questa nuova donna è la stupenda Rappoport, in una strada plumbea di Trieste, con il cappuccio che copre metà della faccia e l’altra metà dolente e risoluta. La nuova fase di evoluzione della donna sta passando attraverso esperienze fatte di dolore e di indurimento dei sentimenti. In una fase involutiva.
 Vincere “senza far prigionieri”: è per dimostrare questo che nel film scorre sangue e violenza, non perchè si imiti Tarantino. Il regista americano non c’entra assolutamente niente.
L’affrancamento dalla schiavitù, la liberazione del proprio corpo dalla violenza, la fine traumatica delle gravidanze imposte, la ricerca della maternità perduta, la reazione al ricatto forte ed a quello ipocrita, l’insegnamento severo e sgradevole ai figli, ed altre azioni fuori della morale tradizionale fanno di questo film –e questo le donne l’hanno capito bene- un punto di riferimento per una emancipazione vera.
(Lunedì 13 Novembre 2006)
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