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 A tu per tu con il giovane regista Saverio Costanzo Vincitore di due nastri d'argento per "In memoria di me"
di Raffaele Rivieccio  All'indomani dell'annuncio dei meritatissimi nastri d'argento (montaggio e sonoro in presa diretta) assegnati alla sua seconda opera abbiamo intervistato il giovane regista rivelazione della nostra cinematografia: Saverio Costanzo. Fra gli autori emergenti della attuale cinematografia e, senz'altro quello meno decifrabile, inseribile in categorizzazioni riduttive, per certi versi il suo ancora breve percorso filmico appare a tratti enigmatico. Due film – Private ed In memoria di me – di argomento lontanissimo eppure entrambi girati con un’unità di luogo che rendeva queste opere fortemente metaforiche, ogni elemento acquisiva una valenza simbolica mentre i personaggi diventavano archetipi pantografabili sullo scenario della storia o, addirittura, nella dimensione essenziale dell’essere umano. Anche lo stile di Costanzo è variabile, adattabile, forma funzionale al contenuto. Dallo stile modernista e videogiornalistico di Private al bressonismo ipnotico e mantrico del recentissimo In memoria di me. Costanzo proviene però anche da esperienze documentaristiche. Nel 2001 realizza Sala rossa ma è la precedente operazione del 1999, Caffè Mille Luci, Brooklyn, New York, che segna fortemente la poetica costanziana. Un format scientifico e spettacolare realistico e predittivo al tempo stesso. Sessanta interviste realizzate ad italiani di diverse generazioni emigrati negli Stati Uniti. L’originalità del progetto era nella sua complessa serializzazione che lo rendeva credibile, oggetto di studio sociologico, indagine che non voleva risolversi nell’effetto di facile emotività o di banalizzazione tipiche delle inchieste anche più volenterose. Ma parliamo ora con Saverio….
Partiamo dal tuo ultimo lavoro, In memoria di me, ho notato un parallelismo tematico seppur una antitesi totale nella forma espressiva con Nel nome del padre di Marco Bellocchio…..
Se In memoria di me non fosse stato un film sulla religione o sulla spiritualità ambientato in un luogo educativo, probabilmente non ci sarebbe stato questo collegamento con Bellocchio. Un parallelo tematico interessante, ma il mio film è lontanissimo da Bellocchio. Certo, il tema è vagamente assimilabile, ma c’è un abisso nel vedere come io l’abbia affrontato a distanza di 35 anni in maniera totalmente opposta, veramente altra. La riflessione affascinante è sulla mutazione culturale, ancora antropologica, che farebbe apparire anacronistico Nel nome del padre mentre In memoria di me nel ’72 sarebbe stato completamente incomprensibile. Sono film figli del loro tempo. In memoria di me sembra un film atemporale o, meglio, fuori dal tempo. Potrebbe vivere ieri, oggi, domani, non ha riferimenti evidenti. Ma è anche un film che nasce in questo tempo, che vive di questo tempo, di questo spaesamento, di questa ricerca di un pensiero forte.
E’ stato paragonato a La dolce vita, come film che, perfino involontariamente, hanno raccontato lo spirito più intimo di un’ epoca. Il tuo film, più che Centochiodi di Olmi a cui è stato spesso associato per una similitudine tutta superficiale, lo avvicino a Il vuoto, l’ultimo lavoro di Franco Battiato...
E’ un effetto che assolutamente volevo raggiungere, c’era la volontà di correre un rischio. In memoria di me doveva essere un film che trasmettesse un’esperienza più vicina possibile a quella che vivono coloro che abitano quel luogo misitico. Anche lo spettatore deve vivere in quel modo. Non volevo portare a quell’esperienza in modo didascalico o arrogante ma suggerendo un’entrata nel clima che può essere solo molto volotaria. C’è chi si lascia trasportare e chi no, sapevo che sarebbe stato un film che avrebbe diviso il pubblico in sala. C’è chi lo vive profondamente e chi lo vive in modo superificiale e quindi si vede un oggetto assurdo per la sua sensibilità. Il mio film nasce con un atteggiamento sovversivo per la nostra epoca. Ogni parola è pensata, riflettuta, pesata, detta in un certo modo. Oggi se ne dicono tante di parole ma spesso sono vacue, vuote. Ogni cosa e persona nel mio film è simbolica è oggi il cinema non rincorre più il simbolo.
In memoria di me è molto diverso da Private. Sta emergendo uno stile tuo o vuoi tenerti lontano da qualunque stile?
Non c’è uno stile ma una grande continuità, come tra i documentari ed i film. C’è un percorso, a me interessa quello. Un autore, un regista, devono fare un percorso, che significa diverse fasi, adattarsi. Per me lo stile, la parola forma non ha senso assoluto. Se si tratta una storia come quella di Private ci si accorge che quella storia deve essere rappresentata in quel modo. Poi ogni autore è identificato con lo stile del suo primo film, quindi io ero diventato quello della camera a mano, dell’immagine sporca. Ma quello volutamente doveva essere un film esplosivo, viscerale, forte, che ti prende e non ti da respiro. Ma poi mi piace cambiare. Per me è interessante trovare il tempo della storia che racconti.
In un momento di difficoltà produttiva e distributiva, molti artisti stanno diventando anche produttori di se stessi per seguire tutto il percorso del film. E’ anche il tuo caso?
Per me è essenziale il controllo del lavoro. Il film si fa col produttore, crescendo insieme. Senza un produttore o cambiando produttore mi sentirei perduto, allo sbando. Lo insegnano i grandi maestri, funzioni se funziona il tuo gruppo di lavoro. Un regista senza i suoi reparti non vale niente. Per me diventa necessario produrre i miei film, non posso immaginarmi in lotta con la produzione. Il tira e molla sui soldi è un discorso che deve essere fatto prima perché altrimenti si lavora in antagonismo. E’ un modo di difendere il proprio lavoro, la propria espressione. Anche se l’occhio esterno di un produttore che mette i soldi e che ti priva di alcune libertà è utile a limitare il rischio per un regista di autocompiacersi, di autocelebrarsi.
Parliamo ora del tuo primo documentario: “Il caffè delle luci”. Nel bar italo-americano sulla Diciottesima Avenue i protagosti che intervistavi avevano un tempo limitato per parlare oppure gli lasciavi grande libertà?
Ho iniziato a frequentare il bar per due mesi per conoscerli i soggetti da scegliere ed intervistare, ho cominciato a riprenderli dopo natale e sono andato avanti fino alla fine di luglio. Per tutto questo tempo, tutte le mattine, dalle 8 a ora di pranzo, riprendevo il loro habitat quotidiano.
Erano prime, seconde, terze generazioni di emigrazione?
Erano principalmente terze generazioni, americanizzati. C’erano anche anziani emigrati “in prima persona” negli anni ’70, ma erano le onde riflesse dell’ultima grande emigrazione di massa. Negli anni ’70 ci fu un’emigrazione consistente che non era quella degli anni ’20 non era quella degli anni ’40 nè quella di Ellis Island. Non erano più soprattutto italiani, erano gli ultimi arrivati ed hanno colto gli effetti di totale mariginalità della loro emigrazione tardiva. Non sono come quelli di Ellis Island che hanno avuto la possibilità di fare un percorso parallelo allo sviluppo economico dell’America.
In questi personaggi c’erano gli echi dei vecchi documentari dell’Istituto Luce o anche dell’ultimo film di Crialese?
Gli emigrati contemporanei sono diversissimi da quelli di Crialese, italiani della Sicilia rurale, agricola. Ora, invece, anche se vengono da Pozzallo, vengono da una Pozzallo già costruita, edificata, sviluppata. Quelli di Crialese mi sembravano molto innoqui, innocenti, quasi vergini, una visione bellissima in un film volutamente poetico che racconta più il senso dello spaesamento, della sradicazione.
Quel progetto di documentario nacque come tesi di laurea?
Si, in sociologia delle comunicazioni. Alla fine degli anni ’90, quel documentario antropologico seriale era anche un prototipo di reality e del Grande Fratello ancora a venire. Io, invece, ero stato influenzato dal documentario anni ’70 americano che è di matrice sociale, che operava una lunga osservazione di luoghi, di spazi, di “posti umani”. C’è anche uno spunto in Smoke ma è molto distante, è solo una associazione strutturale. Caffè Mille Luci, Brooklyn, New York sono 60 puntate di 10-12 minuti, c’è la serialità, lavoravo sull’idea di prototipo, non assomigliava a nient’altro. Oggi non lo rifarei in quel modo perché la televisione ha cannibbalizzato quel tipo di linguaggio che però per me era innanzitutto studio etnografico, sacrificio umano, personale, esplorazione di un luogo sociale attraverso tecniche etnografiche, psicologiche.
(Domenica 3 Giugno 2007)
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