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 La morte quasi contemporanea di Antonioni e Bergman Il cinema di impegno Un apprendistato laico
di Piero Nussio Tanti anni fa, in una cittadina laziale, nelle lunghe estati calde dei diciotto anni. Ci muovevamo in gruppo, prima in spiaggia e poi –nei caldi pomeriggi afosi- si andava al fresco del cinema. Semi di zucca, lacci di liquirizia, ed i film dell’epoca. Il preferito era Godzilla (Gojira, di Ishirô Honda, 1954) e tutti i suoi amici ed epigoni “lucertoloni”. Ma apprezzavamo anche Il mostro della laguna nera (Creature from the Black Lagoon, di Jack Arnold, 1954) e le altre creature mostruose dei “fantascienza” degli anni ’50. Le ragazze, invece, andavano matte per Il gigante (Giant, di George Stevens, 1956) perché c’era il fascinoso ribelle James Dean, e per La gatta sul tetto che scotta (Cat on a Hot Tin Roof, di Richard Brooks e di Tennessee Williams, 1958) perché c’era il bellissimo e cupo Paul Newman. Non mi dispiace affatto di aver visto tutti quei film, classici di dieci-vent’anni prima, che recuperavo d’estate insieme agli amici del gruppo, e che in fondo hanno segnato un amore per il cinema d’intrattenimento che dura ancora.
Ma la sera era tutta un’altra cosa. Al paese c’erano due sale cinematografiche, e d’estate –evidentemente- la programmazione era particolarmente curata. O almeno così accade nei ricordi, che tutto smussano e addolciscono. Mi costava caro, perché le mie finanze di diciottenne sopportavano a fatica la spesa di due film in un solo giorno (più i semi di zucca e i lacci di liquirizia…). La sera andavo in un altro cinema per vedere i film “impegnati”. La morte quasi contemporanea di Michelangelo Antonioni e di Ingmar Bergman mi ha fatto rendere conto, come in una folgorazione, di quanto i due abbiano segnato le mie serate ed i miei gusti cinematografici. Quei due registi, così lontani e così diversi, erano un po’ come i due angeli protettori che mi avevano accompagnato negli anni difficili della mia “formazione”. La sera, nell’altro cinema del paese, con gli occhi ancora pieni dei “lucertoloni” o dei drammi familiari del Texas, con ancora in bocca un po’ del salato dei semi di zucca… Ci andavo da solo –guai se gli amici del pomeriggio avessero saputo dei miei tradimenti- ma poi lì incontravo molta gente, con la quale si faceva tardi a discutere nelle notti d’estate.
Li chiamavano “film impegnati”, e quella definizione era un po’ sciocca, un residuo anch’essa degli anni ’50 e della loro logica da “guerra fredda”. Perché “impegno” era l’impegno sociale di una certa connotazione politica, che aveva avuto il suo valore quarant’anni prima, all’epoca di Sergei M. Eisenstein. Ossia ai tempi eroici della “Corazzata Potemkin”, in quegli anni ’20 in cui si era consumata la guerra civile russa.
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Ingmar | | 
Michelangelo | I miei diciott’anni preannunciavano invece ben altre “rivoluzioni”, ossia quel ’68 che avrebbe avvolto di fiamme tutto il mondo (primo vero fenomeno “global” della nuova era) e che si sarebbe poi disperso nelle ceneri degli spinelli e degli anni di piombo. Ma a quell’epoca ancora nessuno sapeva che stavamo sul ciglio del precipizio, che stava per scoppiare la grande fiammata. Anzi, vigevano ancora i mefitici anni ’50 e la loro calma gora: sentivamo la cappa di tradizioni immutabili, e solo poche persone sapevano parlarci di qualcosa di nuovo che cominciava ad insinuarsi nei meandri del cervello. E quelle persone erano –appunto- i due numi tutelari del cinema d’impegno. Lo svedese Bergman insegnava a noi sanguigni latini come far gelidamente scoppiare le passioni, cosa fosse “l’ora del lupo”, e come si potesse tranquillamente giocare a scacchi con la morte. Il ferrarese Antonioni veniva da un clima più caldo, ma l’umido delle paludi di Comacchio rendeva anche il suo cinema un’esplosione sorda, con la miccia bagnata, ma non per questo meno distruttiva. Ho in mente la lunga esplosione silenziosa che poneva termine al suo film “americano” (Zabriskie Point, 1970). Ma ho anche in mente il “rosso ottuso” di Deserto rosso (1964) e la “ricchezza disperata” della sua prima trilogia (L’avventura – La notte – L’eclisse).
Questa miccia sorda ed umida era la mitica “incomunicabilità” di cui tanto sparlavano i giornali borghesi dell’epoca. C’erano tre parole che definivano quel “culturame” di cui aveva parlato spregiativamente il vecchio ministro di polizia Mario Scelba, e su cui si esercitavano le salaci penne de “Il Tempo” e de “La Nazione”. Le tre parole erano “Picasso”, “incomunicabilità” e “impegnato”. Comici e giornaletti ridevano dei dipinti di Picasso e delle sue donne con gli occhi e le facce cubisti. Ma soprattutto riservavano le loro battute sarcastiche ai silenzi nei film di Antonioni e di Bergman.
A noi –invece- l’arte moderna piaceva. Ma soprattutto amavamo il cinema, e quel genere di pellicole. Nelle lunghe notti d’estate, dopo la proiezione, ci riunivamo in crocchi a parlare delle opere appena viste e, a partire dai problemi sollevati dai film da Bergman a da Antonioni, si discuteva dei rapporti umani, del senso della vita, del peccato e di Dio, di quanto fosse possibile comunicare con le altre persone, di quali fossero i valori dell'esistenza. Ci sentivamo un po’ strani –e con un vago, inespresso, senso di superiorità- a parlare dei grandi temi della vita e del mondo. La realtà che ci proponevano i due grandi non-maestri non era né eroica né fantastica. I sogni di ex adolescenti, le avventure dei western e delle pellicole di cappa-e-spada, si infrangevano in questi mondi attutiti e silenziosi.
Antonioni e Bergman non proponevano le rivoluzioni eroiche e le barricate, non ci consolavano con promesse future o con ricerche di santità. La loro mestizia laica era una vera doccia fredda per i sogni di chi aveva –in fondo- tutta una vita da decidere davanti a sé. Ed era anche una maniera difficile di parlare, quella fatta dei lunghi silenzi dei film di Antonioni o delle fredde analisi dei rapporti delle pellicole di Bergman. Eppure, a modo loro e nonostante le sciocchezze qualunquistiche di Scelba & Co., i film impegnati e l’arte moderna di Picasso riscuotevano un consistente successo. La sala dell’altro cinema non era stracolma, ma eravamo comunque in tanti ad apprezzare quei film “inguardabili”. Stranamente –mi viene da pensare- hanno funzionato anche dal punto di vista commerciale: se oggi possiedo una station wagon è perché le ho imparate a conoscere nelle ambientazioni di Bergman, e Blow up ha sviluppato meglio di tanta pubblicità il mito della “swinging London” ed il turismo verso l’Inghilterra.
Era un clima, quello di quegli anni, che richiedeva che i profeti fossero “disarmati”, razionali e freddi. Leggevamo (ed anche in quello eravamo in parecchi) le opere di Bertrand Russell. La sua era una maniera laica e un po’ aristocratica di affrontare i grandi temi del mondo, ma ci appassionavamo anche per il suo pacifismo forte, ostentato e rigoroso. Apprezzavamo ugualmente un altro scrittore: Leonardo Sciascia. Era freddo, razionalista, disilluso ed anti-romantico. Tanto quanto sanguigno, siciliano e caparbio. La sua lotta alla Mafia ed alle mafie d’ogni genere divenne, dopo A ciascuno il suo (film e libro), uno dei nostri punti di riferimento. E fece di lui un maestro per il nostro “pensiero sociale”. C’erano anche i rivoluzionari romantici come il Che Guevara, ma in fondo sentivamo molto più vicino il tranquillo avvocato Salvador Allende, che solo quando fu obbligato dalle circostanze dovette imbracciare il mitra dell’autodifesa.
Tutto ciò lo dovevamo ai film “dell’impegno”, alle opere di Bergman e Antonioni, alle tranquille –ma infervorate- discussioni del dopo cinema. E all’appuntamento del ’68 ci arrivavamo carichi di proposte, di intelligenza, di novità. Se poi i potentati economici e i ministri di polizia hanno mandato le cose in tutt’altra direzione, non fu certo per demerito nostro, né per colpa dei film “impegnati”.
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(Mercoledì 8 Agosto 2007)
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