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Il mondo del disagio, mentale e sentimentale

El dia que me amen

Una interessante "commedia" argentina


di Piero Nussio


Può sembrare un luogo comune, ma ogni film argentino che vedo l’idea mi si rafforza: «Il modo di pensare argentino è tutto come il tango: un pensiero triste che si balla».
“Un pensiero triste”, perché al di là dai drammatici momenti che ha vissuto la popolazione argentina, fra dittatura e crisi economiche, qualunque manifestazione dell’arte e del modo di vivere di quella nazione è sempre e comunque venato di tristezza.
“Che si balla”, perché la tristezza non è mai accartocciata su se stessa, come sarebbe in un’opera nata nel freddo del Nord Europa. Gli argentini –per lingua e per tradizione prevalente- sono comunque latini, e dunque estroversi e rumorosi.
“Tango” però, non rumba, calipso o cha-cha-cha: un ballo teso, misurato, drammatico, sensuale, non una semplice attività muscolare.

Probabilmente, il film più adatto ad esemplificare tutta questa tipologia è la “commedia” El dia que me amen, dove i pensieri sono più tristi che mai, ma comunque si balla e si affronta la vita con il giusto piglio.
L’argomento principale del film è la depressione –intesa proprio in senso medico-, con un contorno di abbandoni, di rapporti umani difficili, di sentimenti forti e della difficoltà ad esprimerli.
Su argomenti del genere, noi italiani non siamo mai riusciti a fare una commedia: mi ricordo solo Diario di una schizofrenica (Nelo Risi, 1968), Il male oscuro (Mario Monicelli, 1990) e Chiedo asilo (Marco Ferreri, 1979), tre ottimi film, ma nessuno di essi riusciva ad essere lieve nel trattare l’argomento.

Gli americani hanno fatto buoni lavori sui modi del disagio mentale, con film come Rain Man (Barry Levinson, 1988) e Forrest Gump (Robert Zemeckis, 1994); ma quando fanno una commedia sui temi dell’abbandono, la risolvono in fretta con una storiella d’amore alquanto banale, e arrivano lisci all’happy end.
È invece proprio la banalità delle soluzioni che il film argentino El dia que me amen (Daniel Barone, 2003) riesce sempre ad evitare. Forse tranne che nel titolo (Il giorno che sarò amato o Se qualcuno mi amerà), che lascia presagire chissà quali scorciatoie romantiche ai problemi.
Invece, in questo “nord del Sud America” che è l’Argentina, la situazione dei rapporti sociali e sentimentali è più devastata che nella mitica Scandinavia. Tutti i protagonisti del film vivono l’abbandono e la crisi coniugale: il protagonista Joaquín (Adrián Suar) è stato abbandonato dalla madre da piccolo; Mara (Leticia Brédice) ha seguito il padre quando ha deciso di separarsi e di andare a vivere in Europa. Lei stessa ha inconsapevolmente abbandonato Joaquín –peggiorandone le condizioni mentali- ed ha consapevolmente abbandonato un promesso sposo spagnoli pochi giorni prima delle nozze. E così via, tutti i personaggi che appaiono nel film sono protagonisti di un qualche fallimento matrimoniale.
E sia: lo sapevano in Svezia quando noi ci stupivamo, lo sanno in Argentina, lo sperimentiamo in Italia. Il problema non è però questo, ma come attrezzarci per sopravvivere a quel deserto dei sentimenti che si unisce a tanti sfaceli, e forse ne è la causa.


Sarebbe stato facile dare la colpa all’invisibile madre di Joaquín per tutto quanto gli accade, o accusare Mara di aver peggiorato, con la sua partenza, una situazione già compromessa. Ne sarebbe venuto un drammone a forti tinte, di quelli che si producevano ai tempi del muto.
Sarebbe stato altrettanto facile e scontato, secondo i canoni della commedia giovanilistica, far risolvere tutto in un amore che scoppia fra Mara e Joaquín, risolvendo d’un colpo tutti i problemi che si erano accumulati.
Il film argentino non prende –fortunatamente- nessuna di queste strade scontate. E non abbandona mai i temi della commedia, che ha scelto come proprio registro: è un film sul disagio e l’abbandono, sul male di vivere. Ma anche su come se ne possa uscire –senza soluzioni miracolistiche- puntando al rapporto con gli altri.
Il finale è aperto: Joaquín e Mara forse si metteranno insieme o magari resteranno solo amici. Nel frattempo, però, Joaquín ha deciso volontariamente di farsi curare in clinica, ed i primi effetti si cominciano a vedere. Mara, e tutti gli altri personaggi del film, anche se non soffrono di patologie conclamate, sperimentano e affrontano l’abbandono e il vuoto dei sentimenti quanto il protagonista.

Anche loro hanno bisogno di ricorrere a qualcuno su cui fare sponda, perché la vita –amara per tutti- è meno difficile se le persone riescono a parlarsi.

C’è in tutto il film una raffinatezza di temi e di situazioni che, senza mai appesantire una scorrevole visione dello svolgersi degli avvenimenti, fa capire come nessuna delle circostanze sia capitata per caso. Lo spettacolo cui Mara partecipa da protagonista, un balletto, è il “Notre-Dame de Paris” di Riccardo Cocciante e la trama è quella del romanzo di Victor Hugo. Cioè dell’amore della bella zingara Esmeralda ed il gobbo Quasimodo, che ha molti riflessi con la storia narrata nel film; il parallelismo però non è mai né perfetto né scorrevole, né percon l’ambiente romantico né con la cupezza del romanzo ottocentesco francese.
L’ambiente del film argentino è quello di una middle class, culturalmente avvertita, che può pagarsi cliniche e dottori, che può viaggiare all’estero senza troppi problemi. I problemi però esistono, sono d’altra natura. La psicanalisi, le sedute di gruppo, la malattia mentale sono l’altro tema del film, dopo quello dei rapporti umani. Adrián Suar esprime con molta naturalezza le sue difficoltà mentali.
Nessuno dubita della rilevanza patologica della malattia, ma la soluzione “medica” non è mai sbandierata oltre la sua funzione di stimolo e di aiuto. La guarigione può solo avvenire per volontà del malato e non ci sono scorciatoie “buoniste” o “medicali” che possano abbreviarne il tragitto.
La cura psichiatrica necessita di attenzione più che di medicine: a trent’anni dalla “Legge Basaglia” e delle sue importanti innovazioni, fa piacere scoprire come certe consapevolezze siano ormai patrimonio comune, anche in luoghi molto lontani dal Friuli.

Due notazioni finali, sui meccanismi del cinema.
Questo film –così interessante e ben fatto- non è distribuito in Italia, e solo grazie all’attività di promozione culturale dell’ambasciata argentina, ho potuto vederlo, in edizione sotto-titolata.
E l’ultima notazione: il regista Daniel Barone e il protagonista Adrián Suar, così bravi nel rendere gli stati patologici e poi le timide fasi verso la guarigione, sono attivi soprattutto nelle fiction televisive.
Magari ne avessimo di altrettanto bravi, in tv, dalle nostre parti…


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(Domenica 8 Giugno 2008)


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