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Conferma il suo stile la ressegna tutta al femminile di Pozzuoli

A corto di donne

Opere di ottima qualità ed splendida atmosfera


di Raffaele Rivieccio


E’ il secondo anno che frequento una Rassegna molto particolare come A Corto di donne. Perché particolare? In fondo di festival tematici già ne esistono, di rassegne declinate al femminile ce ne sono anche altre. Certo, in questa quarta edizione si sono viste anche esclusive toccanti ed intense, ma in quest’Italia, terra di navigatori, inventori ma anche curatori di fetival e rassegne cinematografiche nulla si crea di inedito, tutto si trasforma, si implementa, si cambia di segno artistico o politico mentre le facce sono sempre un po’ quelle dei soliti noti. Eppure dal vulcanico terreno puteolano, qualche magma alieno si è prodotto grazie all’ostinazione dell' ideatrice Rossana Mobilio ed alla guida sicura di Adele Pandolfi e Giuseppe Borrone, direttori artistici. Quello che colpisce nel vivere questo festival dall’interno è l’assenza ufficiale delle figure tradizionali che accompagnano le manifestazioni, giornalisti, divi, ballerine e tutto l’armamentario di retorica di invidie, favori e “mignottume” che caratterizza tanti eventi cinematografari. Habitat antropologico tanto bene raccontato dal compianto Dino Risi nel cattivissimo Il gaucho. A corto di donne è una rassegna – ora anche concorso – di corti girati esclusivamente da donne. Donne provenienti da tutto il mondo e che, in una Babele di lingue mediata dal poliglotta Borrone, riescono, a convengno a Pozzuoli per tre giorni, a confrontarsi, ad aggiornarsi, a scambiarsi valutazioni ed anche a ipotizzare progetti comuni. In un panorama di bellezza struggente, tra il Rione Terra ed il Castello di Baia, la Bellezza non riesce a sfondare il limite della spiaggia bloccata dalle retrovie di trincee di trash, immondizia reale e metaforica che ammorba Napoli. Ed in questa eruzione di trash, anche le piccole gemme di cinema tutt’altro che trash del festival, diventano piccoli simboli di speranza per una città che aspetta solo un rumore, una immagine per risorgere dal sonno della ragione.
Non mi farò influenzare dai lavori che hanno vinto le varie sezioni della rassegna. Andando per l’ordine alfabetico del catalogo, mi farò invece trasportare dalle suggestioni dei corti che ho visto e che più mi hanno fatto dimenticare la mia presenza professionale, tornando ad essere solo affascinato spettatore.
Innanzitutto il crudele Songes d’una femme de menage – A cleaning lady’s dreams di Banu Akseki ed interpretato dalla nota musa ozpetekiana Serra Yilmaz. Il film incide sulla “corteccia sociale” dello spettatore attraverso immagini potentemente simboliche ai limiti del didascalico e del surrealismo che mettono a confronto due mondi, due ceti, due caste sociali tra cui non può esserci comunicazione perché oramai le lingue parlate, pensate, le vie del pensiero e del desiderio sono troppo lontane. Una donna delle pulizie pulisce i vetri, un muro invisibile ma fortissimo che la divide dalla bella e curata padrona di casa che pratica un futile e “incomprensibile” yoga. Il vetro che divide le due donne è un vetro sociale in tutto simile a quello che divideva Charlot al freddo, fuori dai ristorante dei ricchi borghesi. L’analisi vagamente bunuelliana, si tinge poi di colori onirici quando la donna delle pulizie scopre il vibratore della “padrona” che inizia a funzionare girando come una lancetta sul tavolo. La cameriera non riesce a capire cos’è, come può essere utilizzato sul suo corpo grasso e cadente, quanto è profondo il gap culturale – seppur di cultura sessuale – che la separa da chi sta servendo.

Una scena di "Da cuore a cuore" uno dei corti in programma



Rigoroso ai limiti di un kammerspiel è invece Gard à vie di Marie Favasuli, incontro-scontro di una madre interrogata dalla polizia e che scopre che il figlio, sotto le spoglie del bambino innocente che crebbe, è in realtà un terrorista. La bravura della protagonista Gabrielle Lazure e l’umanesimo antropologico della Favasuli che ama e inchioda i propri personaggi chiudono il racconto in una unità di luogo rotta dal finale che implode sulle nanotecnologie nascoste nel cuore della madre e che celano microchip segreti fattile impiantare dal figlio per un normale intervento di by-pass. I bambini, mitizzati nella melensa infanzia della memoria, crescendo diventano mostri di cinismo. Il corto ricorda in questo un episodio di Dino Risi – ancora lui – ne I nuovi mostri nel quale Ornella Muti, hostess in pausa tra un volo ed un altro, conosce ed ama uno straniero con cui non scambia una sola parola, divisi dalla lingua ma anche da un odio che lei non immagina. Lo straniero le lascia in ricordo della notte d’amore un pacchetto che lei porta con se e che poi l’inquadratura di un giornale ci farà capire che era una bomba per un attentato. Amore filiale o passionale non cambiano il cinismo “mostruoso” dei personaggi della Favasuli e di Risi che strumentalizzano le più ingenue affettività per inoculare il veleno della “guerra” degli uomini.
Curiosa e buffa è La grande menzogna di Carmen Giardina. Due ex attrici ricoverate in una clinica psichiatrica per border-line, mettono in scena un incontro immaginario tra Anna Magnani e Bette Davis che finisce in rissa. Alla fine della recita in romanesco ed in un italiano americanizzato, i due deliranti personaggi tornano al napoletano. Alle ennesime accuse della infermiera circa il loro fallimento esistenziale, le due allora tornano ad essere Anna e Bette in un finale struggente. L’apologo della Giardina in fondo è una metafora della città partenopea, costretta sempre in un ruolo pulcinellesco che però quando viene accusata di buffoneria, sa rivendicare la propria creatività e follia a costo dell’autodistruzione.
Cinema militante e collettivo nella vecchia accezzione post-sessantottina è invece Adele e le altre di Silvia Novelli. Storia grottesca di tre anziane donne che rapiscono Papa Ratzinger per insegnargli l’indulgenza e quello per cui il femminismo ha combattuto. Il film, interpretato da tre donne realmente impegnate socialmente, è recitato in modo straniante in un clima volutamente amatoriale che in qualcosa è ricollegabile all’unico film ironico e censurato girato sulla figura del Papa, ovvero quel Pap’occhio di Renzo Arbore. E’ assurdo constatare quanto opere anche blandamente ironiche abbiano possibilità di circolare solo nei festival e nelle rassegna per la timorosa autocensura applicata dai canali mediatici maggiori. Il Vaticano tarpa più la creatività oggi rispetto ai decenni nei quali ha governato la Democrazia Cristiana.
In quest’edizione di A corto di donne il clima espressivo, la cifra che prevaleva nei corti era comunque abbastanza cupo, rivolto ad un’infanza nella quale spesso dominano bambini cattivi oppure intermezzato da flash-backs che impediscono uno sguardo fiducioso sul futuro. In questi corti il passato spesso invadeva il presente spingendolo a debordare su un futuro che scompariva dall’orizzonte. Il pessimismo che stiamo vivendo probabilmente agisce a livello anche subliminale su chi scrive cinema, soprattutto se le menti demiurgiche sono quelle delle giovani invitate puteolane. Un esempio ne è La giornata di Eva di Clara Salgado che racconta la giornata di una ragazza che combatte con il suo fisico, i suoi vestiti, la sua dieta, sfiornado le patologie anoressiche, tutto solo per andare a lavorare in uno squallido ufficio con mediocri colleghi. Il tono era drammatico – non viene risparmiata anche una scena di vomito in bagno – per raccontare una storia che in altri tempi si sarebbe potuta mostrare con modi ironici e divertenti da commedia all’italiana.
Complimenti alla maestria registica di Stefania Andreotti ed al suo documentario La vita loca realizzato in Messico sulle bande di pandilleros, quasi delle sette malavitose che dai loro nuclei latino-americani stanno espandendosi in tutto il mondo sulle rotte della droga ma anche di uno spirito dei tempi che sulle fascie sociali più marginali e disperate agisce secondo psicologie similari ovunque. La delinquenza giovanile che la Andreotti racconta dall’interno – in un arrischiato reportage che segue le vere regole del giornalismo preinternautico – non è troppo distante da quella che Sorrentino ha mostrato in Gomorra. La tecnica di ripresa e di montaggio del documentario sono così veloci e ad incastro che i ragazzi delle bande sembrano personaggi di uno dei recenti videogames di violenza urbana, ritmati da musiche droganti e ipnotiche. Una regia, quella della Andreotti, quasi frenetica, una Pizzica di frammenti iconici che restano impressi come gli occhi lisergici dei ragazzi in buio verdino ed infernale della camera notturna. Il virtuosismo della regia non genera empatia in questi giovani condannati ad una morte prematura ma che esprimono in un modo come un altro, in fondo, la loro ribellione all’arrendersi ad uno mondo dalle gerarchie immutabili.
Da notare Amelia di Chiara Idrusa Scrimieri che utilizza come protagonista assoluta del corto sua nonna Amelia, personaggio dalla potente verve autoironica e tranchant, una possibile erede di un genio comico come fu Tina Pica. La nonna, autrice ed attrice di una serie di lettere di riflessione sull’esistenza e seguita da una regia occulta ed affettuosa dalla nipote che però non sbaglia un colpo nei tempi, nei ritmi e negli effetti del suo film, anticipando doti di ottima raccontatrice di storie umane e di personaggi secondo gli insegnamenti di grandi maestri come – ancora! – Dino Risi.
Ancora. Il corto animato For cheese! di Byun Jieun che mostra una lotta tra topi per un pezzo di formaggio per il quale tutti rischiano o perdono la vita compreso il vincitore che mangia il suo premio avvelenato dal topicida. Se il tratto ed il ritmo è sin troppo debitore dell’animazione alla Hanna & Barbera di Tom & Gerry, la Jieun è geniale nella sottile allusione ad un classico del cinema come Rapacità-Greed di Von Stroheim del 1924 nel quale i protagonisti muoiono nel deserto del Canyon per contendersi dell’oro che non ha più nessun valore nel nulla pre-mortale nel quale sono sprofondati. Basta sostituire ai pistoleri dei topolini, all’oro il formaggio, ma la metafora spietata del denaro come boccone avvelenato è la stessa.
Interessante lo sperimentalismo della videoarte di Home di Virginia Eleuteri Serpieri che trasforma lo schermo in una scatola dei ricordi nella quale l’immagine virtuale sembra sempre collidere con l’oggettività della materia, dove la fuggevolezza della memoria è incollata in un bricolage dei pensieri e dei ricordi, dei profumi e delle fotografie, dei tessuti desueti e delle piccole cose di un bel tempo che fu. Lo sperimentalisno della Serpieri potrebbe essere definito come un iperrealismo gozzaniano, un ipertestualismo degli oggetti, minimale che accompagna l’animo a visitare la soffitta del passato.
Ho citato spesso Risi, ma è da rendere merito alla giornalista e studiosa Oriana Maerini che ha scritto un interessante libro-intervista sull’eterno collega-rivale di Risi, ovvero Mario Monicelli. La Maerini evento speciale del festival è stata la sua videointervista al regista toscano quale omaggio ad un’epoca del nostro cinema ma anche alla rassegna puteolana, rassegna che Oriana Maerini ha sempre seguito in vari ruoli e che quest’anno ha dovuto disertare per la nascita della piccola Lavinia, per ora protagonista del suo “film”.
Ultimo commento è ad una conferma della rassegna, la bravissima regista berlinese Karlotta Ehrenberg con il suo Dietro la porta. Storia di una prostituta straniera che per una fortuita coincidenza viene liberata dal suo protettore da una donna che la prende in casa come badante dell’anziana madre. Il corto si chiude sul volto triste della ragazza mentre una chiave serra la porta della casa nella quale ha trovato una nuova prigione. Forse il lavoro sarà meno violento ma la gabbia nella quale è stata chiusa è altrettanto umiliante. La Ehremberg conosce bene i modi e le tecniche della narrazione come aveva già dimostrato l’anno passato con Il muro ed il rumore della serratura che chiude nuovamente la vita della ragazza in una galera riesce ad essere al tempo stesso un gesto drammatico e comico o meglio tragicomico. La regista tedesca frequenta anche molto l’Italia riuscendo a mediare tra un racconto rigoroso e una vena di crudo sarcasmo più nostrano.

Un corto di Ilaria Godani
Da cuore a cuore
Raffinata ed elegante storia di sentimenti legati all'arte


Mario Monicelli
La sostenibile leggerezza del cinema
Un libro intervista sul grande maestro



(Martedì 8 Luglio 2008)


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