 I temi della morte e del dolore (1) Dolori e mal di cinema Viaggio nel cinema che "elabora il lutto"
di Sandro Russo A margine del film Noi due sconosciuti (Things we lost in the fire) si è aperta la discussione su un argomento su temi delicati e coinvolgenti come la morte o il dolore; e la vasta filmografia che in vario modo ha trattato il dolore. Quella che segue è la prima parte di un meditato intervento di Sandro Russo.
Il critico Morando Morandini, all’uscita da un cinema dove avevano proiettato Kapò (Gillo Pontecorvo, 1959): «Ha fatto bene Jacques Rivettea stroncarlo! Non si ha il diritto di mostrare la morte in quel modo.» Si riferiva alla lenta carrellata in avanti della macchina da presa sull’internata del lager morta sulla recinzione elettrificata del campo. Erano altri tempi. Le coscienze e la memoria non si erano ancora affrancate dall’incubo della seconda guerra mondiale. Tempi ancora naïf, l’infanzia e la fanciullezza della nostra generazione. Al cinema non era ancora cominciato a scorrere il sangue senza dolore dei western all’italiana; erano di là da venire l’invenzione delle ‘ammazzatine’ alla Tarantino, della morte e del sangue così per ridere. Dice lo scrittore Antonio Pascale: «Li vorrei vedere questi ragazzi, che ridono per gli schizzi di cervello sparsi per la macchina, come riderebbero se incontrassero Pepp’ u’ stuort’ (uno dei suoi personaggi letterari), che prima gli sgrugna i denti e poi neanche dice loro perché…»
Da sempre l’arte ha messo in scena degli stati d’animo drammatici -pensiamo solo alla tragedia greca- per tentarne una analisi e, a volte, il superamento. Da sempre è in scena la Morte, che di tutti i rovelli dell’uomo è di certo il più irriducibile; ma poiché essa è per sua natura non comprensibile, né assoggettabile ad accordi o compromessi, viene scandagliato il suo corrispettivo umano: il Dolore. In che modo? Questo è il punto, ed è qui che ritorna la questione del controllo dello stile. Il ‘come’ è di fondamentale importanza Perché in relazione al modo di trattare un argomento così urticante, all’intelligenza e sensibilità dell’autore, all’atmosfera in cui le immagini e la storia sono calati, lo spettatore è sottoposto ad un coinvolgimento che varia lungo una scala graduata dove il ‘tilt’ viene stabilito in modo del tutto arbitrario e individuale. In definitiva, non saprei stilare criteri validi per tutti, ma proverei ad elencare dei titoli che si situano in varia posizione lungo questa retta, cercando di definire il come e il quanto trovi ‘personalmente’ sostenibile. Ciascuno può preparare la sua propria antologia, tagliata su criteri e gusti personali, e provare poi a trarne un comune denominatore.
 Uno dei film più belli, per sensibilità e delicatezza su questo tema, trovo che sia Film blu (Trois couleurs: Bleu di Krzysztof Kieślowski, 1993). Nel progetto originale dell’Autore, che voleva illustrare alla sua maniera i tre colori della bandiera francese (Liberté – Egalité – Fraternité), il blu corrisponde alla libertà, ovvero all’affrancamento dal dolore.
Il film racconta della faticosa risalita dal fondo del pozzo di Julie (una bella e brava Juliette Binoche), dopo un incidente che le ha portato via il marito e la figlia. Un dolore tanto grande da non potersi dire. Secondo Kieślowski da non potersi neanche mostrare, tanto che diverse volte, nel corso del film, quando un richiamo, un particolare, fanno precipitare Julie nel ricordo di quel che è accaduto, lo schermo sfuma al nero.
 Analoga leggerezza di tocco –stavolta di mano femminile– nel film La mia vita senza me (di Isabel Coixet, regista spagnola ‘del giro’ di Almodovar; 2003) in cui pure la storia è delle più drammatiche. Ispirato da un libro di Nancy Kincaid, narra della scoperta da parte di Ann (Sara Polley), 23 anni, un marito e due figlie, di aver un tumore incurabile e pochi mesi di vita. Senza dirlo a nessuno Ann stila una lista di cose che vuole fare prima di morire e incide dei nastri per le sue bambine e altre persone care.
La morte è dura e senza speranza, ma può essere descritta in letteratura e mostrata al cinema in modo lieve. Cosa che non sempre accade, se Lev Tolstoj (1828-1910) in “Guerra e Pace” impiega non meno di trenta pagine per descrivere la morte del principe Andrei, in seguito all’infezione di una ferita di guerra; attraverso le sue pagine non un lamento, non l’orribile odore della gangrena, vengono risparmiate al lettore. Contro questa ‘connivenza’ con la morte e con il dolore, insorse da medico - oltre che da scrittore - il contemporaneo Anton Čechov (1860 – 1904), in una famosa polemica con Tolstoj, in cui denunciò come ‘morboso’ tale compiacimento descrittivo, affermando che lui Andrej avrebbe saputo curarlo e salvargli la vita.
 Un terzo film vorrei riportare in questa mia personale antologia del dolore sostenibile. Si tratta de Le invasioni barbariche (Denys Arcand, 2003). Anche qui sono di scena la morte e il dolore, raccontati attraverso gli ultimi mesi di vita di Remy - un cinquantenne che ha vissuto da disincantato gaudente e ora si trova ad affrontare il momento cruciale – insieme alle persone (figlio, amici, ex moglie, ex amanti) che intorno a lui si sono radunate.
Ma allora, della morte e del dolore si può parlare o no? Ricordo ancora quanto mi colpì a suo tempo la lettura della morte per arsenico di Emma Bovary (Gustave Flaubert, 1856-57), tanto da consigliarla come la più perfetta descrizione del quadro clinico da avvelenamento da questa sostanza. E ancora, quale racconto o libro o filmato potranno mai sostituire l’impressione che si trae dal visitare di persona il campo di concentramento di Auschwitz (Oswiecim), oggi museo dell’Olocausto e non a caso luogo patrimonio dell’umanità?
Quel che propongo non è quindi uno scotoma totale sull’argomento, ma un giusto mezzo, tra la necessità di prendere atto dell’immanenza del dolore e della morte e di non dimenticare il passato, e la comprensibile resistenza ad un tema non gradevole. Una questione di modi e di stile, appunto.
(1 - continua)
(Domenica 6 Luglio 2008)
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