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 "Morte a Venezia", un classico di Visconti Fregene Day Una bellissima ossessione
di Piero Nussio All’ombra della tettoia, con le stuoie parzialmente arrotolate ed il ventilatore coloniale che ruotava lentamente, mi sentivo quasi in un film di Stewart Granger. Poi la tecnica -che oggi permette di gustare un film quasi dovunque- mi ha immerso in altre estati, in un altri abbigliamenti.
Ho abbandonato la sahariana bianca di Stewart Granger per il lino bianco di Dirk Bogarde. Piccola distanza, si direbbe: entrambi attori londinesi e quasi coetanei. Ma grande differenza negli stili e nei contenuti.
Soprattutto perché il film che abbiamo visto “alfresco” era Morte a Venezia, di Luchino Visconti. La tematica principale dell’opera non era certo lo spirito vacanziero, ed il film –a cominciare dal titolo- è sempre stato accompagnato da un senso plumbeo di disfacimento. Tematica che non manca di certo, e che aveva condizionato la mia visione all’epoca, nel lontano 1971.

Ma, sarà per la sensazione “coloniale” alla Stewart Granger o per la location a Fregene, la caratteristica che più mi ha colpito in quest’ultima visione del film è proprio l’ambientazione balneare dell’opera. Succede con i grandi film (e “Morte a Venezia” si conferma tale, a quarant’anni dalla sua uscita) che abbiano sempre nuove angolature da scoprire; questo è ciò che li rende “classici” e sempre meritevoli di essere rivisti.
Mi sono sentito, insieme ai protagonisti del film, un ospite del “Grand hotel des bains”, accompagnato dal mellifluo direttore Romolo Valli a scoprire tutte le caratteristiche ed i riti dell’albergo. Poi, insieme allo sguardo voglioso di Dirk Bogarde ho esaminato anch’io gli altri ospiti del luogo, soffermandomi –questione di gusti personali- più sulla velata Silvana Mangano che sul bellissimo figliolo Tadzio (lo svedese Björn Andrésen, scomparso in seguito nelle fiction della televisione di casa sua).
Sono stato attratto da Silvana Mangano (che proprio Visconti aveva reso “nobile” e riabilitata dai tempi bollenti di “Mambo” e “Riso amaro”) mentre parlava polacco e francese con l’istitutrice dei figli, una grande ed irriconoscibile Nora Ricci, con degli occhialini indimenticabili, così come il cappello rigido a falde larghe.

Quando l'istitutrice-governante andava in giro per le calli e i campielli di Venezia, insieme alla nidiata dei bambini, e continuava a richiamare all’ordine il distratto Tadzio, sembrava una stampa d’altri tempi e –insieme- qualcosa di persistente nella memoria collettiva.
E poi, tramite il legame dei buffi cappelli, tutto il bel mondo che si riuniva al Grand Hotel per i bagni di mare. Dame russe, romantiche donne inglesi, famiglie di nobiltà prussiana, contesse austro-ungariche, turisti inglesi e francesi che effettuavano il “Grand Tour”…
Per merito (nell’ordine) di Luchino Visconti, di Visioni in trasferta, e dell’ospite di casa, mi sono trovato fra Venezia e Fregene ad inizio del ‘900, a scoprire la salubrità dei bagni di mare. I piatti con le arance del film si confondevano con i dolci del Fregene Day, le fragole che i contadini veneti andavano a vendere ai turisti mittel-europei si mischiavano con la Sangrìa che raccoglievo in caraffa, con la sua aggiunta di menta piperita.

Conosco poco (stranamente) la storia di Fregene, ed il suo essere stata –specie negli anni ’60- la “spiaggia-bene” dei romani, contrapposta alla più popolare Ostia. Ed invece non ignoro, anche per gli ovvii legami cinematografici, la nascita del Lido di Venezia, con la sua clientela cosmopolita degli inizi del secolo. Quei nobili centro-europei, che avevano sempre fatto riferimento a Venezia e all’Adriatico come sbocco naturale al mare, in fondo si sentivano a casa fra le sabbie del Lido. Fino a metà Ottocento, la Laguna aveva patto parte dell’impero di lingua germanica, ed aveva raccolto i nobili viennesi, i cugini più montanari della Baviera, e tutti gli slavi che gravitavano all’ombra dell’aquila bicipite.
Era anche utile, per tutti questi nobili legati alla terra e al territorio –e dunque disavvezzi al mare aperto- che l’Adriatico dal lato italiano fosse poco più che una bagnarola d’acqua salata. Amavano passeggiare per le sue tranquillizzanti “basse maree”, quelle che ancora oggi fanno le fortune di Jesolo, Rimini e Cattolica.

Respirare lo iodio e il salino erano i miti salutistici dell’epoca. Niente delle nostre faticose abbronzature, perché a quei tempi la carnagione scura era il marchio dei contadini e della gente dei campi. L’abitudine dei “bagni di mare” nasceva in Costa azzurra per il mondo francese, ed a Venezia per quello slavo e mittel-europeo. Bagni in realtà se ne facevano pochi, ma nei capanni al mare, difesi da tendaggi ed ombrellini, si sfoggiavano i costumoni a righe, le velette femminili e gli immensi cappelli di paglia. E, come racconta Visconti, la giornata si svolgeva ritualizzata: iniziava con una colazione formale, continuava poi in tenuta da spiaggia fra la zona dei “capanni”, poi in abito lungo negli spazi comuni dell’hotel e, ordinatamente, nella “salle a mangér”, fino a concludersi in tenuta da sera nelle passeggiate sui vialetti di ghiaia, e con la sosta ai tavolini. Lì ove si incrociavano sguardi e desideri, si udivano le risate dei gruppi e i canti dei posteggiatori.

Era il mito degli “happy few”, quando questi non erano necessariamente felici –si pensi proprio a “Morte a Venezia” ed a tutti i suoi languori-, ma di certo erano pochi. È un mito questo che sembra essersi veramente perso: ai nostri giorni non ci vantiamo mai di essere pochi. Casomai, al contrario, si cerca quello che “ha successo”, “è di moda”, “ha un alto share”, e così via.
A Fregene, in una strana mescolanza onirica con Venezia dei primi del novecento, eravamo –tutto sommato- in pochi. Non perché qualcuno abbia voglia escludere gli altri, ma perché non si può essere in troppi a fare la stessa cosa, se si vuol farla bene.
E per fortuna, magia del cinema “alfresco”, basta un classico di Visconti, gli amici di “Visioni” e l’ospitalità di una casa a Fregene…
(Lunedì 8 Settembre 2008)
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