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 La creazione di un mito Australia Nicole Kidman e Hugh Jackman in un film “oltre l’arcobaleno”
di Piero Nussio Il termine da usare, nel caso del film Australia (Baz Luhrmann, 2008) è “mitopoiesi, parolone difficile e poco usato, il cui significato è quello di “creazione di una mitologia”. La parola viene soprattutto usata, di recente, per i romanzi ed i film “fantasy”, in cui un autore (l’esempio più citato è J. R. R. Tolkien e il suo mondo del Signore degli anelli) crea un mondo di semidei, eroi e avventure. Ma nel caso dei fantasy siamo –come dice il nome stesso- in un esercizio di fantasia, in una sorta di “second life” ante litteram. Invece l’Australia è concreta, vera e reale. Un continente, un’immensa isola abitata da venti milioni di persone: poche per uno stato che è per dimensioni il sesto del mondo, comunque molto di più di quanto se ne sappia o se ne parli tra la gente degli altri continenti. Uno strano posto, l’Australia. Un continente totalmente agli antipodi del mondo dei bianchi europei, ove il capo dello stato è ancora la regina d’Inghilterra. Una terra che appartiene, per vicinanza, all’oriente asiatico e che è vicina al Borneo, all’Indonesia e alle isolotti dei Mari del Sud, dove la maggior parte della popolazione si sente più bianca e britannica dei gallesi e degli scozzesi.

Lo stato, d'altronde, si è formato pochi secoli fa da condannati deportati per i reati più gravi, che erano costretti a scegliere fra essere impiccati e dover vivere in quelle terre. Oppure di avventurieri, pirati, navigatori ed esploratori d’ogni genere, che si fermavano a vivere lì dopo aver molto vagabondato per quegli oceani. Da ultimi sono arrivati gli emigranti (quelli di origine italiana sono il cinque per cento, uno ogni venti), a mescolare ancor più le carte di una popolazione molto giovane e composita. Ma la vita non è più quella selvaggia del settecento, ed oggi l’economia australiana è una delle più avanzate (quindicesima al mondo per volume). I livelli di vita, data la scarsità di popolazione e la quantità di risorse, sono fra i più alti del mondo: gli australiani possono paragonarsi per ricchezza ai canadesi, agli scandinavi, ai giapponesi. In Australia c’è agricoltura, allevamento, petrolio, miniere, ed anche un po’ di industria di base competitiva. Un posto del genere, con queste caratteristiche economico-sociali, sembra l’America di inizio secolo, quella dove si è sviluppato, prima sui libri e poi nel cinema, il mito del West. Forse una popolazione, appena raggiunge il giusto livello di stabilità e ricchezza, ha bisogno di creare una propria mitologia, i valori fondanti della propria identità.

Ai tempi di Omero e dei popoli mediterranei, erano i cantori a divulgare le gesta degli eroi; ora sono registi, attori e il mondo audiovisivo che si occupano di cantare le gesta. Per fortuna, stavolta, la creazione del mito sembra venire prima dello sterminio completo dei “nemici”. I pellirossa americani sono stati sterminati nella realtà e in centinaia di film di John Wayne; Maya e Aztechi si sono uccisi fra di loro e dagli spagnoli, prima che qualcuno riuscisse a cantarne le avventure.
Gli aborigeni australiani forse saranno un pochino più fortunati: erano 700 mila sul finire del 1700, e si erano ridotti a 100 mila a metà del ‘900 a causa del comportamento razzista degli australiani bianchi. Ora, dopo molti “atti di riconciliazione”, sembrano riprendere forza e capacità, e sono tornati ad essere più di 450 mila. Sarebbe sciocco –oltre che disumano- se gli australiani non capissero che il loro orizzonte e la loro identità sta proprio nel recupero di quelle tradizioni e capacità culturali di cui solo gli (straccioni ed alcolizzati) aborigeni sono portatori.

Veniamo al film. Baz Luhrmann, il regista, è uno che non perde tempo a fare “mezze cartucce”: il film d’esordio è stato Ballroom (“Strictly Ballroom” 1992) e gli ha fatto guadagnare premi, fama e una nomination per il Golden Globe. Non male per uno sconosciuto trentenne australiano. Quattro anni dopo, 1996, un altro successo internazionale: Romeo + Juliet che ha consolidato il mito di Leonardo DiCaprio e fatto guadagnare a Baz Luhrmann altri premi e una nomination per l’Oscar. Gli Oscar (due) sono arrivati cinque anni dopo, 2001, col film successivo del regista: Moulin Rouge!, insieme al primo incontro con la connazionale Nicole Kidman. Il secondo incontro fra Nicole Kidman e Baz Luhrmann è stato nel 2004 per uno spot di Chanel: No 5: The Film diretto dal regista e interpretato dalla Kidman dura quattro minuti ma è il commerciale più pagato al mondo (18 milioni di sterline totali, con la Kidman che è l’attrice meglio retribuita nella storia, con quasi quattro milioni di dollari).
Il film successivo è, appunto, Australia (2008), della premiata ditta Luhrmann-Kidman, che ha già ricevuto tributi e riconoscimenti, ma se ne aspetta di ben maggiori nei mesi a venire. Dura quasi tre ore (165 minuti), è prodotto dallo stesso regista con il sostegno della 20th century Fox, si serve di dodici diverse società di effetti speciali e di altrettante aziende specializzate per la produzione sonora (Dolby, DTS, SDDS) e le pellicole. Tutte aziende e professionisti australiani (a parte il marchio Prada), tanto per giustificare la creazione del mito. Ugualmente aussie sono tutti gli interpreti: Nicole Kidman (australiana doc, anche se nata per caso alle Hawaii), Hugh Jackman (protagonista maschile, nato a Sydney). Lo stesso vale per i due cattivi: l’allevatore Carney è Bryan Brown anche lui da Sydney ed il cattivissimo tirapiedi Fletcher (David Wenham) nato non lontano, a Marrickville. Soprattutto, ed è quasi incredibile paragonando questo film ai classici americani, sono effettivamente aborigeni gli interpreti di personaggi nativi, molti di secondo piano, ma due con ruoli da protagonisti. Sono il ragazzo Nullah (il giovanissimo attore Brandon Walters) e suo nonno stregone King George (David Gulpilil, già visto in parecchi altri film come Crocodile Dundee e Dieci canoe).

La trama del film è, per molti versi, un classico dei film americani d’avventura degli anni ’50-’60, con il primo tempo molto simile ad un western, lo spostamento delle mandrie di bestiame da un punto all’altro dell’immenso territorio, e tutte le avventure ed i misfatti che vi si possono immaginare. Il secondo tempo, mantenendo attori e ambientazione, cambia totalmente registro e diviene un altro topico del film classico americano: il film di guerra nei mari del sud, solitamente ambientato fra Birmania, Singapore, Tailandia e Indonesia, e interpretato da Tyrone Power e Stewart Granger. Compresi i soldati giapponesi che escono dalla giungla. Il terzo tema, come si direbbe in una composizione musicale, corre lungo tutta la durata del film ed è anch’esso un motivo del cinema classico americano, rappresentato in tanti boss della malavita, proprietari terrieri che strozzano i concorrenti e speculatori d’ogni risma. I cattivi sono l’allevatore Carney –che disprezza la concorrenza e il libero mercato- ed il suo tirapiedi Fletcher, capace d’ogni bassezza e sentina d’ogni infamia pur di diventare un ricco e rispettato uomo d’affari. È la morale puritana che disprezza gli approfittatori e apprezza il self made man che si fa strada solo col proprio onesto lavoro.
Ma non c’è, nella costruzione del mito Australia solo il remake del cinema classico americano (anche se, fin dalla grafica dei titoli, a quelle esperienze si fa esplicito riferimento). C’è soprattutto il chiaro riferimento alla tematica del mondo vista dagli “inglesi degli antipodi". Protagonista indiscussa è una nobildonna inglese, Lady Sarah Ashley (Nicole Kidman), a rimarcare che l’Australia è una monarchia retta dalla inossidabile regina Elisabetta II d’Inghilterra. Il contraltare è però il mandriano Glover (Hugh Jackman ), rude bisteccone tutto d’un pezzo, dagli incerti natali e dalla vita promiscua, ma affascinante ed aitante come un giovane Gary Cooper.

A questi “buoni” tutti d’un pezzo si contrappongono dei “cattivi” altrettanto granitici irriducibili. Ci sono le paure ataviche degli australiani: i profittatori locali e gli invasori asiatici. Australia, come i miti delle saghe nordiche, è abitata solo da personaggi senza sfaccettature: o sono dalla parte dei giusti o sono malvagi. Non c’è –come la cinematografia più recente ci ha insegnato ad aspettarci- un secondo punto di vista. O una prospettiva di riscatto per il malvagio. Quando si sta costruendo un mito non c’è spazio per pentiti e revisionismi.
Lo spazio, invece, incredibilmente c’è per i nativi e la cultura aborigena. Non solo i “selvaggi” non vanno sterminati, non solo sono innocenti dalle colpe che vengono loro addossate. I selvaggi, -a differenza di Via col vento- non sono delle “Mamie” bonaccione, ma portatori di valori e cultura. Certo, non deve essere piacevole –per un australiano bianco, come la maggior parte dei realizzatori del film- dover ammettere di fare parte di un popolo di razzisti e sterminatori. E non deve essere facile –per gli aborigeni- riuscire a collaborare con coloro che sembrano provenire da un altro pianeta ed hanno stretto tutto il tuo mondo in un angolo. Ma, è evidente, qualche decennio di politica di riconciliazione comincia a dare i suoi frutti. I personaggi aborigeni sono perfettamente funzionali alla trama del film, sia quando intervengono con azioni quasi magiche durante il trasferimento della mandria, sia quando mostrano una consapevolezza dell’ambiente, dei luoghi e delle motivazioni umane che i bianchi “civilizzati” non riescono ad avere.
È questo, forse, il contenuto più importante del film che –attraverso una narrazione di tipo classico ed una comprensibilità adatta al grande pubblico- si impegna tuttavia a trasmettere le basi culturali della tradizione aborigena, ed i contenuti che –al di là del facile folklore- possono rivelarsi molto utili e interessanti anche agli antipodi di quel mondo.

La cultura accademica australiana ha ancora difficoltà ad inquadrare nella giusta cornice il fenomeno più interessante che sia sorto in quelle terre, ossia la pittura aborigena. E la cultura sociale del continente non ha ancora trovato la giusta maniera di integrare le due contrapposte riottosità, quella dei neri (orgogliosi e isolazionisti) e quella dei bianchi (ancora razzisti e pieni di boria “coloniale”). Eppure, in questo mondo alla disperata ricerca di un modello di sviluppo più funzionale dei miti falliti del novecento, forse il contributo che viene da “down under” potrebbe risultare fondamentale se riuscirà ad esprimersi in una sintesi conciliativa ed appassionante come quella del film Australia.
Un assaggio se ne è avuto con la rilettura della canzone Over the rainbow (Oltre l’arcobaleno), con Judy Garland trasportata di colpo dal “Mago di Oz” ai miti del “Dreamtime” e della “Terra dei canti” australiana. D’ora in poi, ogni volta che mi capiterà di canticchiarla, non potrò non pensare al Serpente arcobaleno ad ai suoi viaggi prima della creazione del mondo. E il Mago di Oz assumerà allora dei contorni veramente magici.
(Giovedì 22 Gennaio 2009)
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