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Tratto dall'opera teatrale "Aspettando Godot" di Samuel Beckett.

Beket

Chiude la trilogia di Davide Manuli sulla solitudine


di Francesco Lomuscio


I titoli di testa scorrono sull’immagine di un pugile che lancia pugni accanto a delle pale eoliche.
Dopo lo short carcerario Bombay: Arthur road prison e il lungometraggio Girotondo, giro intorno al mondo, incentrato sull’emarginazione, Davide Manuli conclude la sua trilogia in bianco e nero riguardante la solitudine con Beket, girato in soli tredici giorni con una troupe di dieci persone.
Liberamente ispirato alla più famosa opera teatrale di Samuel Beckett, Aspettando Godot, il film si svolge in una desertica terra di nessuno senza data né tempo che, non più abitata dagli uomini, al primo impatto sembra quasi richiamare alla memoria El Topo di Alejandro Jodorowsky.
Terra di nessuno in cui, come Vladimiro ed Estragone, troviamo Freak e Jajà, i quali, perduto il bus che porta a Godot, il Dio che si è manifestato al di là della montagna sotto forma di sonorità musicale, decidono di andare a cercarlo a piedi, nel corso di un viaggio tempestato d’incontri con bizzarri personaggi.



Da qui, Manuli affronta l’assurdità dell’esistenza in circa 77 minuti di pellicola che, debitori di sicuro nei confronti del teatro dell’assurdo ma continuamente attraversati da una più o meno accentuata venatura ironica, vedono coinvolti, tra gli altri, Adamo affiancato da una Eva in chiave lesbica, un bambino che sembra il “magico” portavoce di Godot, un oracolo che vive su una torre d’estrazione di una miniera abbandonata e una ragazza solitaria le cui apparizioni non possono fare a meno di richiamare alla memoria i lavori di Russ Meyer.
Senza contare l’amichevole partecipazione di Paolo Rossi, mentre, al di là di una trama in cui le allegorie finiscono per risultare più importanti del racconto in se, ad affascinare è soprattutto la desolata ambientazione illuminata dalla bella fotografia di Tarek Ben Abdallah.
Ambientazione degna di quel passato filone post-atomico che in Italia nessuno si vuole più decidere a continuare (se escludiamo 2061-Un anno eccezionale di Carlo Vanzina) e che finisce per celebrare un cinema degli spazi aperti, in netta contrapposizione alle due camere e cucina nelle quali sembra essersi rinchiusa la quasi totalità delle produzioni nostrane. Anche se qui, in realtà, siamo tutt’altro che dalle parti del facile intrattenimento.


giudizio: * *



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(Mercoledì 28 Gennaio 2009)


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