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Lezione di antirazzismo

Gran Torino

Clint Eastwood mette a nudo le contraddizioni di un grande paese


di Roberto Leggio


Alla bell'età di settantotto anni il vecchio Clint, non sbaglia un colpo. Negli ultimi tempi (con cadenza quasi annuale), inanella un capolavoro dietro l'altro, quasi a dimostrare che la vecchiaia è una fonte di ispirazione inesauribile. Accantonati da un bel pezzo i panni del giustiziere senza paura e quelli del pistolero taciturno, ma dalla pistolettata fatale, il vecchio leone, ha messo in scena una serie di riuscitissime trame drammatiche, nelle quali ha analizzato le sfaccettature più profonde (ed oscure) dell'animo umano. Apportando però, come un marchio di fabbrica, un sottile (e per questo potente) messaggio di grande forza morale. Non è da meno Gran Torino, piccolo grande film, girato in poche settimane e quasi in economia durante il montaggio di The Changelling. Un “divertissement” pieno di spunti e riflessioni sull'America multietnica, ma soprattutto su quell'America ancora in difficoltà (nonostante Obama) di riconoscersi (e accettarsi) nel diverso. In un'altra razza.


La storia è ambientata a Detroit. La città del motore, dove l'unico simbolo dell'America è proprio la Ford Gran Torino del '72 del titolo. Il resto è un crogiolo di razze (latinos, asiatici, italiani, polacchi e irlandesi), che convivono con diffidenza, in un quartiere spartiacque. Qui vive Walt Kowalski, uomo tutto d'un pezzo, reduce della guerra di Corea, meccanico in pensione, burbero, misantropo e vistosamente razzista. Vedovo da poco, si è autoisolato in una casa/fortino, dove passa le giornate a bere birra in compagnia del suo cane e a tenere sotto controllo la sua automobile sportiva, che non usa, ma che tiene rigorosamente efficiente. Il mondo attorno è vistosamente cambiato, sostituito da immigrati asiatici, che egli disprezza solamente perché lontani dal suo modo di essere. L'equilibrio di questo odio silenzioso, è bruscamente infranto, quando una notte il suo giovane vicino viene costretto con la forza a rubare la sua Gran Torino, da una banda di ragazzi, che Walt caccia spianando davanti a loro il suo fucile Garand. Da quel momento, suo malgrado, diventa l'eroe del quartiere, soprattutto dalla famiglia del ragazzo, che a mo' di espiazione, lo obbliga a lavorare per lui. Superata l'iniziale diffidenza, tra i due nasce un'amicizia inaspettata che gli imporrà a cambiare punti di vista sul suo essere e sul suo modo di pensare.


Sebbene la trama si svolga in maniera lineare, Clint mette pathos nel suo personaggio, che in qualche modo è una summa di tutti quelli che ha interpretato in quasi sessantanni di carriera. Ma è anche un compendio (almeno nei temi) del suo cinema. Ritroviamo così il rapporto padre figli, l'accusa alla guerra che non è mai giusta, la difesa del diverso, la violenza gratuita, la voglia di giustizia fai da te, la riconquista della dignità attraverso l’espiazione di una colpa inenarrabile. Concetto espresso egregiamente in quel finale tra i più belli degli ultimi anni, che inequivocabilmente è una grande lezione di vita. Il film però non è solo questo. Clint tiene a sottolineare a come l'America dopo cinquecento anni, sembra non aver trovato ancora una soddisfacente integrazione. Punto debole di un paese sempre in cerca di se stesso. Di certezze, oltre la semplicistica facciata reazionaria. Eastwood con poesia è riuscito ancora una volta ad emozionare (e emozionare se stesso), mettendo a nudo le contraddizioni sopite di una nazione che ama e che forse, tra qualche anno ammetterà di non aver capito fino in fondo questo vero artista..

Giudizio ****



(Giovedì 12 Marzo 2009)


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