Premiato a New York e Torino, Nanni Moretti lo porta in Italia
Nord
Un road-movie fra le distese innevate della Norvegia
di Piero Nussio
Strana gente, i nordici. Parlano poco, sono teste dure, bevono alcool e soffrono di depressione. Nord è un film emblematico, a partire dal titolo. Titolo originale –in norvegese- che una volta tanto non ha alcun problema di traduzione. “Nord” è nord sia in italiano che in norvegese, ma nella lingua scandinada si intende qualcosa di molto più freddo, tremendo, assoluto.
Jomar Henriksen (Anders B. Christiansen) è un ex campione di sci. Vive nei dintorni di Trondheim, una città della Norvegia centrale, e fa il guardiano di un impianto invernale. Trondheim, con i suoi 150 mila abitanti e i 25 mila studenti dell’Università tecnico-scientifica, è la terza città della Norvegia, un importante porto, una città d’origine medioevale ed una meta turistica importante.
Eppure, vista con gli occhi dei norvegesi, della zona appaiono solo poche costruzioni perse in un mare di neve, e mai più di due-tre personaggi insieme sullo schermo. Il regista Rune D. Langlo è alla sua prima fiction, ma è autore di lunghi documentari e di opere televisive, e sa descrivere gli ambienti urbani di Oslo e il mix razziale che lo abita. Abituati come siamo alle folle urbane delle nostre latitudini, già i suoi strani personaggi in giro per Oslo (il film è 99% onesto, mai giunto sui nostri schermi ma interamente visibile in Internet) ci sembrano persi per la città come noci in un sacco. Ma Langlo, nelle ambientazioni di Nord, supera perfino se stesso nel descrivere il vuoto del paesaggio norvegese.
Il protagonista Jomar soffre di depressione (come in parte è capitato anche al regista). Tende quindi ad isolarsi e a rifiutare qualsiasi contatto con gli altri. Cosa, peraltro, abbastanza facile, in una stazione sciistica frequentata da pochi clienti e dall’aria veramente sconsolata. Il paesaggio innevato è stupendo, e dal finestrone d’arrivo dell’impianto di risalita si gode di un panorama mozzafiato, ma a viverlo sono solo alcuni ragazzini, perché Jomar preferisce rintanarsi sul suo lettino insieme ad una buona dose di grappa. L’unico contatto con il mondo “civilizzato” è il centro psichiatrico dove è stato curato, e dove spesso torna per farsi una partita a ping pong con gli altri internati. Ma la dottoressa che si è occupata di lui vuole che se ne vada, che affronti il mondo da persona sana.
L’unico “amico” che lo viene a trovare è Lasse (Kyrre Hellum) un suo collega sciatore, che viene accolto da Jomar con un bel pugno sul muso. Per forza: è un suo ex amico, che gli aveva soffiato la donna, e che probabilmente è alla base della depressione di Jomar e del suo abbandono dell’attività agonistica. Poi, complice uno spinello e qualche birra, Lasse gli confida che la donna ha mollato pure lui e, soprattutto, che se ne è andata a vivere quasi al Polo con il figlio suo e di Jomar.
Così lo schivo sciatore scopre di non essere solo e di avere “una famiglia”, e si attrezza per raggiungerla 900 chilometri più a nord. L’attrezzatura è formata da una tuta termica, una motoslitta e cinque litri di grappa. La direzione è il nord, il paesaggio è meraviglioso, ma la solitudine e la durezza dell’ambiente sono uniche.
Per molti versi, anche se il paesaggio è l’opposto, la traversata di Jomar somiglia ad un attraversamento del deserto, ricorda da vicino la traversata di Lawrence d’Arabia, nel film omonimo. I boschi sono di abeti, invece delle sparute oasi di palme, ma per il resto il paesaggio si somiglia molto, con la massa chiara della neve altrettanto fluida e mobile delle dune di sabbia. E molto simili sono i pericoli del grande freddo, come quelli del grande caldo: Jomar –che non si è attrezzato con le lenti scure- rimane accecato dal sole e dal bagliore della neve, come altri sono rimasti colpiti dal sole del deserto. Poi c’è il freddo delle notti all’addiaccio e i rifugi di fortuna -come capiterebbe nel deserto- e la “stranezza” delle poche persone che s’incontrano per quelle lande.
Gli incontri di Jomar, nel suo lungo viaggio attraverso il mondo ghiacciato, sono tutti molto particolari. Il vecchio eschimese, con la sua tenda indiana, è fuori del tempo. Il ragazzo con la ruspa, abbandonato dai genitori che sono tornati in Asia, è fuori luogo. La ragazzina con la nonna è fuori dal mondo, l’uomo che gli spara addosso è fuori da ogni regola. Tutti insieme, a cominciare da Jomar, sono veramente fuori di testa, in un misto di ostilità verso l’altro, amicizia profonda, testardaggine e grande arrendevolezza.
Parlano poco, quasi disturba la quiete maestosa del film il fatto che di tanto in tanto ci sia uno scambio di battute. Eppure si dicono tutto quello che necessita, ed ognuno dei personaggi mostra le sfaccettature di una psicologia complessa. E la donna, la meta di una così tremenda traversata, non ha un nome e neppure si vede. Ma sappiamo che c’è, la intravediamo di spalle a fine narrazione, insieme al bambino, e abbiamo la certezza che Jomar trovato una famiglia, il figlio e la voglia di sciare.
Una dignità ritrovata, come quella di Alvin Straight a cavallo della motofalciatrice in Una storia semplice di David Lynch: Jomar Henriksen si muove con la motoslitta, ed ha la stessa determinazione del vecchio Alvin: la vita non vale niente se non si fa quello che talvolta è indispensabile fare.
Strana gente, i nordici. Parlano poco, sono teste dure, bevono alcool e soffrono di depressione. Ma se li si guarda da vicino, sono pazzi e passionali più di noi latini. E le loro facce ti rimangono impresse, nel ricordo e nel cuore. Per fortuna, grazie al Tribeca film festival, al Torino film festival e alla Sacher distribuzione di Nanni Moretti, ora li potremo conoscere un po’ anche noi.