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Le paranoie di Sofia Coppola

Somewhere

La tristezza degli alberghi delle star


di Pino Moroni


È ri-passato qualche giorno fa in televisione, Lost in traslation (2003), secondo film sceneggiato e diretto da Sofia Carmine Coppola, Oscar per la migliore sceneggiatura.
Il forte senso di vuoto di quell’albergo di Tokyo, (vi si svolge buona parte del film), dove un attore invecchiato ma ancora autoironico Bill Murray ed una ragazza troppo stupita ma ancora curiosa (Scarlett Johannson), si incontrano e si affezionano l’uno all’altro, veniva a tratti stemperato da un piccolo reportage su usi e costumi giapponesi, quelli esotici e quelli più banali.
Il terzo film della Coppola, ancora regista e co-sceneggiatrice, è stato Marie Antoniette, (2006) sulla omonima regina francese, futile moglie di Luigi XVI, in un contesto lussuoso e burrascoso.


A veder bene, anche negli appartamenti di Versailles si può riscontrare la stessa paranoia dei alberghi lussuosi, pieni di ogni ben di Dio, dagli abiti ai manicaretti ai dolci di cuochi raffinati.
In Somewhere la Coppola (anche sceneggiatrice) sembra voler fare un remake del secondo film, ma sempre più minimale, narrandone la stessa atmosfera per sottrazione. Un altro hotel, questa volta residenza di star di Hollywood, fa da sfondo alla storia di un attore di successo e della figlia undicenne.
Per capire Somewhere” (ovvero la paranoia degli alberghi delle star), film vincitore a Venezia del Leone d’oro per il miglior film, bisogna immaginarsi Sofia, da ragazzina di 11/12 anni, perduta negli alberghi delle troupe del padre Francis Ford, mentre girava Un sogno lungo un giorno del 1982, Rusty il selvaggio e I ragazzi della 56 strada del 1983.
Gli alberghi hollywoodiani si sa sono pieni di piscine, giardini, centri di benessere e di fitness, sale da gioco ed ogni altro divertimento da ricchi, compresi servizi sexy in camera. Ma non sono fatti per una bambina sola.


Tornando a Somewhere, la Coppola ha distillato il plot narrativo dei due precedenti film, togliendo il Giappone anche se documentaristico, e da Versailles l’atmosfera di bufera imminente.
E questo non ha certo giovato alla sua ultima riproduzione.
Ripetizione di scene, pause lente, luoghi silenti, inquadrature ferme ed una recitazione parca, omessa, sia nella gestualità che nelle parole, può però portare alla noia (e anche alla para-noia) degli spettatori.
A sentire qualche critico "allineato" (per tentar di salvare il premio veneziano), si dice che l’arrivo della figlia undicenne dell’attore fa cambiare la vita al padre. A me è sembrato che sia stata risucchiata anche lei nel “nulla” della vita del padre.
Un antico ricordo autobiografico, quello vissuto dalla stessa Sofia Coppola immersa negli alberghi di supporto alle riprese cinematografiche, ora ci viene raccontato maniacalmente.


Allora ci si chiede che cosa ci sia di così speciale nella sceneggiatura di questo film per premiarlo con il Leone d’oro di Venezia se non la paranoia stessa di Quentin Tarantino, presidente della giuria ed ex fidanzato di Sofia.
Solo che la paranoia di Tarantino si identifica con la violenza ed il sangue, quella di Sofia con il nulla esistenziale.

Forse è che una volta parlato e riparlato della stupidità umana e del grande nulla, viene la voglia di fare una o più stragi.
Causa ed effetto: da Sofia Coppola a Quentin Tarantino.


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(Lunedì 20 Settembre 2010)


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