 Il nome c'è, ma il resto (tutto) dov'è? Dylan Dog Fiacca rielaborazione americana del cult fumettistico italiano
di Roberto Leggio Alla fine si può dire con orgoglio che Dylan Dog non è un prodotto esportabile. Dylan, l'indagatore dell'incubo, colui che vive a Craven Street London, che ha un amico demenziale (e genialmente comico) che di nome e di fatto assomiglia a Groucho Marx, che va a donne (tantissime) e che toglie le castagne dal fuoco (infernale) all'ispettore Block; è prodotto esclusivamente italiano. Proprio così: italiano. Perché sa flirtare con l'horror più genuino, sapendosi anche prendere in giro. Dylan Dog, nato dalla penna di un “lunatico solitario” che di nome fa Tiziano Sclavi, con la capacità di adattare grandi romanzi, film, fumetti e altre diavolerie horror, è un fumetto “geniale”. Ed è proprio questa “rilettura” di tutto un genere ad essere il punto di forza di questo eroe di carta che in venticinque anni è riuscito a vendere ben cinquantadue milioni di copie in Italia e nel mondo. Quindi l'attesa per un film che ne ricalcasse le gesta era a dir poco spasmodica.

Adesso Dylan Dog è al cinema. Peccato però che non si tratta di un film su Dylan Dog. Anzi, a ben vedere, Dylan Dog (tranne il nome nel titolo), non c'entra per niente. Si ci sono gli zombie, i licantropi e volendo anche Groucho (che per questione di diritti di immagine si chiama Marcus), ma tutto il resto, lo spirito del fumetto soprattutto, è scomparso, svanito. Svilito. Dylan Dog, interpretato dall'inespressivo Brandon Routh (che fu Superman per Brian Singer), non abita a Londra ma a New Orleans, non guida un maggiolino bianco, non se la deve vedere con il “padre satanico” Xabaras e nemmeno con la “madre amante” Morgana. Insomma un Dylan Dog, rielaborato in versione americana per un mercato da “teen horror movies”, che non chiede niente e pretende niente. Eppure ci sono voluti quindici anni di trattative tra la Bonelli, Sclavi e gli Studios hollywoodiani per rendere in carne ed ossa un cult di tutto rispetto. Tenuto conto che le sceneggiature in questi lunghi anni sono state innumerevoli e finite tutte nel cestino, perché poco appasionanti e poco “credibili”. In soldoni la trama si districa tra un detective (che non viene mai citato con il proprio nome) che viene richiamato in servizio da una belloccia che ha visto massacrare il padre da un mostro “impossibile”. Il resto è un pasticciaccio brutto di battute demenziali e scene reciclate da Underworld e Zombieland. Kevin Munroe, il regista, che non deve aver mai letto niente di Dylan Dog, si limita a rienventare un mito senza averlo conosciuto. Peccato, perché con una buona sceneggiatura e tanti (tantissimi) soldi qualsiasi regista italiano avrebbe saputo fare di meglio. Dylan Dog è nostro. Tienemocelo stretto.
Giudizio *

(Martedì 15 Marzo 2011)
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