Nel panorama assolato e caldo dell’estate cinematografica italiana viene in mente, come faceva Nanni Moretti in Caro diario, di prendersela con uno sfigato film dell’orrore e di sfogare su di esso la propria rabbia cinefila. Ma, a differenza di Harry pioggia di sangue contro cui se la prendeva Nanni, La notte del giudizio (The purge, 2013) ha principalmente il difetto di un titolo italiano orrendo, ma non è né splatter né voyeuristico come l’altro film. Anzi, The purge, pur rispettando tutti i canoni del genere, si fa notare per una serie di caratteristiche che –senza per questo renderlo memorabile- lo elevano in parte rispetto alla marmaglia del genere.
Si sarà capito, temo, che non sono un fan del genere horror, ma così come so apprezzare i capolavori che gli appartengono (“Shining”, “Stand by me”, “Nosferatu”, “M il mostro di Dusseldorf”, “Rosmary’s baby”, tanto per citarne solo una manciata), so anche riconoscere un decente prodotto quando mi capita di vederlo.
Si potrebbe cominciare col dire che The purge rispetta le classiche unità di spazio e di tempo, essendo tutto (esclusi i titoli di testa) girato in una casa e in una notte, ma di certo il paragone con la tragedia greca è esagerato, trattandosi di un film di genere e di consumo, che fa del thrilling la sua caratteristica unificante. Questo è, per metterla subito giù chiara, la caratteristica e il difetto principale, che classifica la pellicola come “di genere” e spiega la scarsa sensibilità dei distributori, che gli hanno assegnato un titolo del tutto anonimo, che lo farà perdere nelle scarse frequentazioni degli appassionati del genere.
Che probabilmente resteranno delusi, perché non vi troveranno splatter e bagni di sangue, violenze particolarmente efferate, o morti atroci e scene da far gelare il sangue.
Il film parte invece da quegli assunti che un tempo erano frequenti nella fantascienza sociologica, prima di essere soppiantati dalla banalità degli effetti speciali. La domanda che si è posta il regista-soggettista (James DeMonaco, uno specialista del genere thriller con “Il negoziatore” e “Assault on Precinct 13”, nonché del serial tv di “Crash”) è se davvero lo sfogo della violenza che si può trovare in tutte le persone sia utile a rendere poi gli individui calmi per il resto del tempo. La risposta che sembra emergere dal film è che le cose non stiano esattamente così, e che forse questo “sfogo rituale” risveglia incubi ancora più profondi. E così facendo sega anche il ramo dell’albero su cui è seduto il genere horror, dato che molti ne giustificano le esagerazioni proprio con la presunta azione benefica di “sfogo degli istinti repressi”.
The purge (ossia, letteralmente, “lo sfogo”) immagina che in un vicino futuro, per stabilizzare una società troppo distruttiva, si sia concessa una notte di assoluta sregolatezza, in cui è permesso ogni reato e addirittura l’omicidio, in cui polizia e ospedali sono assenti ed ognuno può tornare alle regole della giungla. Secondo la tesi premessa al film, questa “cura” avrebbe funzionato, assicurando per il resto dell’anno una società stabile e tranquilla.
La realtà è ben diversa, anche nella finzione: tutti si barricano in casa e fanno fortuna i venditori di blindature e sistemi di sicurezza; a pagare le conseguenze della violenza sono soprattutto i barboni e gli emarginati in genere. È facile vedere in tutto ciò l’eco della crisi epocale che ha portato il mondo sull’orlo della catastrofe prima negli USA (ricordate i “subprime”?) e poi in Europa (ricordate l’euro?). Ed infatti il film, dopo un po’ di preparazione propone subito il caso: un giovane nero senza casa inseguito da una banda di teppisti mascherati in un quartiere di ricchi. Il rimando è immediato, per chi ama un po’ il cinema, ai “drughi” di Arancia meccanica e alla loro ultra-violenza. E, dall’altro lato, il nero inseguito sembra il desiderio di replicare Sydney Poitier in “La parete di fango” del 1958 (The defiant ones, di Stanley Kramer).
Ma non è solo il tema razziale a caratterizzare il film. La pellicola di DeMonaco –sempre nella sua quasi banalità di prodotto di consumo- è piena di rimandi colti, a saperli cercare. Funny games (Micheal Haneke, 1997) e Hunger games (Gary Ross, 2012) sono i primi che vengono alla mente, il primo per la situazione della famiglia assediata e assalita, il secondo per la spettacolarità mediatica con cui “lo sfogo” è seguito quasi come fosse un’avvenimento sportivo [e qui si aprirebbe tutto un paragrafo importante sugli eventi sportivi come “purge” degli istinti violenti, ma ci porterebbe troppo lontano dall’analisi del film].
Ma un altro rimando è importante, per il valore che l’oggetto sta oramai prendendo nella società “vera”: è l’uso delle maschere da parte dei nemici della famigliola. La maschera rimanda subito al film V per vendetta (James McTeigue, 2005), al suo grande successo, all’uso di una maschera recuperata dell’Inghilterra barocca del 1600 (“Guy Fawkes mask”) e alla sua valenza anti-sistema ora dilagata dagli hacker di Anonymous ai politici di Occupy-PD. Le maschere di The purge, come quelle di Arancia meccanica, hanno valenza opposta, cioè quella di occultare un’azione di violenza oppressiva, ma in questo mondo che ha perso molte delle sue certezze morali, è facile confondere le finalità e sottolineare l’effetto di insensibilità fornito da una maschera.
Così come, alla faccia della solidarietà, sopravvengono i temi di un altro film di successo, La zona (Rodrigo Plà, 2007), in cui i ricchi si sono ghettizzati per difendere le loro ricchezze dall’assalto dei poveri. Ma come è facile immaginare, e The purge ci basa molta parte della sua trama, non è dai poveri o dai violenti che viene l’attacco più grave, bensì dai vicini privilegiati e invidiosi. C’è tutta una parte di temi dell’opera che si presta a delle riflessioni di carattere sociale e sociologico: mi limito ad accennarle, anche per non raccontare troppo della trama del film: quanto siano reali le protezioni e le sicurezze di cui ci fidiamo, quanto siano vere e sentite le “convenzioni borghesi”, quanto sia giusta la solidarietà o l’utilitarismo, quanto siano utili le armi e la violenza anche difensiva, quanto conti la difesa della famiglia o dei sentimenti, quanto sia lecito arricchirsi anche lecitamente, quanto conti la difesa e quanto la scelta consapevole.
C'è, infine, un ultimo rimando fra The purge e il cinema dotto. Il più inquietante, perché il riferimento ripetuto fa temere che l'uso non sia limitato alla sola finzione. In una fase di The purge c'è la necessità di ridurre un prigioniero all'impotenza e il suggerimento è quello di premere sulle sue ferite, in modo da provocargli un dolore così atroce da fiaccarne le resistenze. Questa pratica di tortura era già stata citata in un altro film, molto più realistico: era Nella valle di Elah (In the valley of Elah, di Paul Haggis 2007) dove uno sconcertato Tommy Lee Jones viene a sapere che il figlio era stato soprannominato “il dottore” perché era solito praticare questo tipo di atrocità ai prigionieri nemici, durante l'intervento americano in Iraq contro Saddam Hussein.
C'è una sola frase da dire, ed è la stessa che dice la protagonista di The purge sul finale del film: «Basta! Da questo momento nessuno uccide più nessuno». Alla faccia di tutte le chiacchiere sulla funzione benefica dello sfogo degli istinti repressi.