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Remake "distratto" di un capolavoro coreano

Old Boy

Spike Lee dirige un “fumetto” di vendetta senza redenzione


di Roberto Leggio


Castigo e delitto prima e dopo il “carcere”. Joe Doucett, un pubblicitario senza più credito e sulla via del tramonto (fisico, psicologico e mentale), dopo un enorme ubriacatura si ritrova rinchiuso in una stanzetta di un “albergo” senza finestre con l’unica compagnia di un televisore a mangiare per vent’anni solo ed esclusivamente ravioli al vapore di un “misterioso” ristorante cinese. Solo con la sua coscienza (scrive centinaia di lettera alla figlia che non vede mai), viene a sapere (attraverso il video) di essere stato accusato dell’omicidio brutale della moglie, non riuscendo a capacitarsi del perché sia finito li dentro. Riavvolgendo il suo passato e prendendo coscienza di essere una pedina di un gioco perverso, qualcosa dentro il suo intimo lo costringe a rinforzarsi, smettere di bere e covare tremenda vendetta nei confronti di chi l’abbia rinchiuso tra quelle quattro mura. Nei giorni senza tempo in cui pensa di aver trovato il modo di fuggire, si risveglia in mezzo ad un campo uscendo d'improvviso da un’enorme cassa di legno. Con un vestito nuovo, rasato di fresco con in testa solo odio inizia ad indagare (ed uccidere senza pietà) assieme ad una giovane assistente sociale arrivando a capire che la soluzione dell’enigma è legato al suo passato e alla sua “vera” identità.


Dieci anni esatti dopo, Spike Lee torna sui passi che furono di Park Chan Wook, dirigendo il remake di un film che fece storia (Oldboy, appunto), tentando di penetrare nella vendetta personale (e nei sentimenti) di un uomo forse “non” ingiustamente incarcerato. Nella versione originale, più catartica e più profonda (tratta tra l’altro da una famosa graphic novel), la poesia bestiale della vendetta (e della sua origine) si infrange adesso con una struttura meno intrigante dove si cerca di giustificare come Joe, eretto a vittima a tutto tondo, debba giostrarsi tra motivazioni psicologiche e ataviche pulsioni. Rischiando l’effetto fumettistico, Spike Lee dirige il film con perizia omaggiando perfino alcune sequenze il cineasta coreano, concentrandosi però nel disseminare indizi come se fosse il postumo di una sbronza, così da far sembrare tutto il delirio di un sogno ad occhi aperti. La violenza in questo modo diventa “cartesiana”, ponendo il personaggio principale nella scomoda parte di accollarsi tutta la colpa ed un senso di colpa senza avere la possibilità di riscatto e di redenzione. Josh Brolin, mascella volitiva e gomito facile, accetta a “mal volere” il suo destino comprendendo che il passato è un macigno difficile da scaricare.

Giudizio: **




(Venerdì 6 Dicembre 2013)


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