 Imperdibile opera firmata da Abderrahmane Sissako Timbuktù Una pellicola contro la follia del fondamentalismo islamico
di Oriana Maerini "Sissako compone un potente mosaico, a tratti leggero, più spesso drammatico, di una quotidianità resa terribile dalle leggi imposte dagli integralisti islamici. Il suo sguardo lucido e poetico, anche nei momenti più brutali, sottolinea la crudeltà di imposizioni e divieti assurdi di un Potere assoluto e cieco. Mai così di attualità, dati i recenti fatti che hanno sconvolto il mondo, Timbuktu scrive tra il deserto e l'intolleranza un capitolo prezioso per la conoscenza e il contenuto artistico." Prendo a prestito l'eccellente motivazione con la quale il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani SNCCI ha designato Timbuktu Film della critica, per dichiarare l'imperdibilità di questa pellicola, nominata all'Oscar come miglior film straniero e distribuita nelle sale italiane da Academy Two, in un momento in cui dobbiamo capire i danni del fontamentalismo islamico sulle popolazioni che ne sono vittime. Per raccontare la storia dell' occupazione di Timbuktu da parte della polizia jihadista il regista mauritano Abderrahmane Sissako (Waitibg for happiness, Banako) prende spunto da una storia vera: la lapidazione, il 29 luglio dell 2012 ad Aguelok, una piccola città nel nord del Mali, di una coppia di genitori con due figli colpevoli di non essere sposati. Ma il film affronta la tematica sociale con gli occhi di Toya la figlia dodicenne di Kidane, un berbero che vive in una tenda tra le dune sabbiose in pace con la moglie Satima, la bambina e il dodicenne Issan, il giovanissimo guardiano della loro mandria di buoi. La famiglia vive lontana dal paese e non subisce direttamente le vessazioni dei miliziani jihadisti che controllano la vita della popolazione vietando musica, risate, sigarette e addirittura il calcio. Fino a quando Kidane, viene giudicato per omicidio da una corte improvvisata che emette tragiche e assurde sentenze.

Quello che affascina di questo film è la scelta stilistica di mostrare immagini forti (quella della lapidazione), violenze indicibili, anche sul piano morale e psicologico in un contesto di rara bellezza e poesia. I paesaggi africani, i volti delle persone, soprattutto quelli delle donne, che tengono più testa degli uomini agli integralisti nonostante siano le più vessate dai divieti, rimangono impressi nella memoria anche dopo l'uscita dalla sala. La poesia, poi, è stigmatizzata dalla sacralità dei rituali africani (bellissima la metafora della sciamana che continua compiere i suoi gesti non curante degli occupanti) e dai gesti della vita quotidiana vissuta in completa armonia con la natura (la pastorizia fra le dune, la vita nella tenda berbera). Più forte, quindi, appaiano le immagini della violenza (insuperabile la scena in cui il miliziano spara con il kalashnikov all'unico cespuglio verde fra le dune come a voler violentare non solo qui uomini ma anche il territorio.) Del resto, l'incipit di "Timbuktu" possiede una grande potenza metaforica: una jeep con un gruppo di jihadisti e la bandiera nera svolazzante che insegue sparando una gazzella tra il confine della savana e le dune del deserto. La macchina presa la fuga disperata dell'animale mentre una voce dice: "Non ucciderla ma sfiancala!". La sequenza finale riprende, come a volte chiudere il cerchio della disperazione la corsa di Toya, la figlia di Kidane dopo la morte dei genitori inquadrando il volto bellissimo e sconvolto della ragazza. Forse, nonostante la follia degli uomini, c'è ancora spazio per la speranza.
giudizio: *** 1/2

(Mercoledì 11 Febbraio 2015)
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