Un impulso si dispiega lungo i circuiti di un computer fino ad arrivare alla scheda di raffreddamento di una centrale nucleare nei pressi di Hong Kong. L'esplosione che segue mette in allarme le autorità cinesi che da subito intuiscono che si tratta di un attacco informatico. La stessa cosa accade qualche giorno dopo, quando alla borsa di Chicago la soia ha improvviso impennata di prezzo. A malavoglia i cinesi ed americani si trovano a collaborare tra loro. Così il capitano Dawai, della polizia cinese, insiste perché venga liberato e utilizzato Nick Hathaway, hacker di lusso in carcere per una lunga pena detentiva. Egli infatti è l'unico a poter fermare questa “guerra informatica”, in quanto è stato proprio lui a sviluppare il programma su cui i cyberterroristi si sono basati. La caccia all'uomo in giro per il mondo si fa si fa fin da subito serrata e la posta in gioco diventa via via più pericolosa.
C'è sempre qualcosa di nuovo in ogni film di Micheal Mann. Il suo modo di fare cinema, si è contraddistinto perché si allontana sempre dai canoni classici hollywoodiani. Blackhat (che per i meno informati è un parametro che indica le violazioni informatiche per proprio tornaconto) è un cyberthriller con tanta azione e molta “riflessione”. Ma è soprattutto un racconto di quanto potrebbe e volendo accade, in un mondo sempre più interconnesso. Come la prima la sequenza (da antologia), dove i pirati di oggi non hanno bisogno di piazzare bombe ad orologeria, quanto per far scattare una scintilla basta collegarsi ad un computer e premere un tasto. Su questo piano il nuovo film di Mann anticipa come sempre i tempi, sviluppandosi su una tesi che in fondo “nessuno” di noi è al sicuro. Un compendio (azzardatemi il vocabolo) in cui l'era digitale è ormai una realtà talmente tangibile da creare spaesamento e disastri. Ed è proprio su questo piano che il regista settantaduenne (ma formalmente un ragazzino) pone il suo sguardo ammirato. Anche le città, come al solito riprese di notte con la telecamera digitale diventano un non-luogo tanto da essere quasi le “esterne” propaggini dei circuiti elettrici. C'è però da dire che questa volta Micheal Mann fa un mezzo passo falso. Impone, infatti alla trama dei salti vorticosi, asciugando lo svolgimento della stessa e aggrappandosi a parti più convenzionali (come ad esempio l'amore interrazziale tra Nick e la sorella di Dawai) quasi ad imporre un plot dove la questione personale è più importante della pericolosità globale. O quando mette in mano una pistola a Nick, facendogliela usare meglio dei sicari assassini a cui da la caccia. Ad ogni modo poco importa, anche perché lo scopo di Mann è ben altro. E quello che ne evince è un apologo sulla società ipertecnologica presente e del futuro. Che non è per nulla rassicurante.