 Rilettura e riproposizione del più famoso omicidio della letteratura Assassinio sull'Orient Express Kenneth Branagh riscopre Agatha Christie ma la formula “teatrale” non funziona del tutto
di Roberto Leggio Risolto di fretta e furia il caso di un furto a Bagdad, Hercule Poirot, il famosissimo investigatore belga, viene richiamato in servizio dall’Ambasciata britannica che lo vuole con urgenza a Londra. Trova posto, lusso e conforto sull’Orient Express. Ma una valanga e un omicidio lo distolgono dai piccoli piaceri: la lettura di Dickens e la simmetria delle uova. Per evitare uno scandalo, il direttore del treno chiede a Poirot di risolvere il caso. L’investigatore comincia le sue indagini per trovare il colpevole, nascosto tra i tredici passeggeri del vagone.

Nel freddo di una vallata della Jugoslavia del 1934, Hercule Poirot deve risolvere l’assassinio sul treno più famoso del mondo. Location “ariosa” in un paio di carrozze ferme per una slavina su un binario congelato. Il teatro dell’azione è tutta lì, come l’aveva immaginato e scritto Agatha Christie, ma per Kenneth Branagh poteva trattarsi di un qualsiasi polveroso palcoscenico, oppure di una qualsiasi stanza. La teatralità da “camera” per il regista inglese abbonato a Shakespeare è la sua linfa, ma in questo frangente è più che altro un limite, in quanto la versione dell’omicidio letterario già portato al cinema da Sidney Lumet che meglio ne trasse il suo claustrofobico svolgimento, si espande nei tempi e nelle spazialità del contesto. Prendendosi perfino il compito di mettersi nei panni dell’investigatore belga (con un paio di baffoni forse un po’ demodé), con una spiccata pulsione narcisistica, come quando si posava davanti la macchina da presa di Enrico V e soprattutto Amleto. Poirot è il divo assoluto del film. E questo è un po’ il limite di un film, e soprattutto di un thriller, che ha nel suo DNA la coralità. Ogni passeggero, ogni indizio, ogni movimento, ogni parola detta, gettano il dubbio che forse nessuno la racconti giusta. E questo, per quando venne scritta, era la forza di un’opera originale e coraggiosa. Branagh perde tempo in soluzioni di regia, gioca su piani sequenza, entra ed esce dal treno fermo, ma è come se volesse raccontare molto di più di quello che riportavano le fitte ed affilate parole della Christie. Azzecca un paio di scene e lo fa soprattutto nella sequenza finale, dove tutti gli indiziati vengono posti in una galleria al freddo nell’attesa del disvelamento del vero omicida. Tutto fila liscio, anche troppo, però il vecchio stile, che avrebbe più giovato alla concezione del film; si disperde un film troppo ragionato, troppo costruito. E ciò fa perdere il fascino atavico di una storia ormai senza tempo. Branagh, conscio dell’innegabile successo annunciato, fin dalle prime sequenze, mette in evidenza che dirigerà altri “crimini” della Christie in tempi brevissimi. Tanto che proprio nell’ultima sequenza vediamo Poirot partire per Egitto. L’omicidio sul Nilo lo attende…
Giudizio **

(Venerdì 1 Dicembre 2017)
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