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Un mito di "pietra" ci salverà

Valley of the Gods

Criptico, metafisico, geometrico capolavoro ambientalista


di Roberto Leggio


In crisi coniugale e artistica, il giovane scrittore John si perde nel Navajos Tribal Park nella Monument Valley, per scappare da se stesso e forse trovare nuova linfa per un nuovo romanzo. Estraneo e curioso, scopre che quel luogo è per i nativi sacro ed è stato messo nel mirino di Wes Tauros, ricchissimo ed eccentrico industriale che vuole trasformarlo in un area mineraria per l’estrazione dell’uranio provocando il dissenso dei Navajos che rifacendosi ad un mito ancestrale, sanno come riportare equilibrio tra gli elementi e pareggiare finalmente i conti con i bianchi “sfruttatori”.


Una leggenda ci salverà (forse). Cosa lega il popolo dei Navajos, uno scrittore in crisi e l'uomo più ricco della Terra? Tutto o forse niente. Anche perché quel niente e custodito nella mente (fervida?) dello scrittore che cerca nel suo nuovo romanzo di collegare cielo, terra e futuro dell'umanità. Lo spunto e una leggenda indiana dove la Terra (fecondata da un uomo in cerca di un figlio) genererà un bambino di pietra che con i suoi passi riporterà giustizia nei territori rubati e sfruttati dai bianchi. Per cogliere il senso della metafora il regista Lech Majewski ricorre ad espedienti narrativi di grande impatto visivo (non narrativo), nel quale, mostrando la decadenza della civiltà occidentale puntata sul profitto e sullo sfruttamento dei più deboli, mette in scena una storia di difficile comprensione dove la natura si scontra con l'egoismo degli uomini ed il poco rispetto della Madre Terra. Metafisica alla Terence Malick, cripticismi alla 2001 di Stanley Kubrick e visionarietà geometrica alla Peter Greenaway, l'autore polacco entra nell'inconscio dell'uomo più ricco della terra (un certo Tauros amante dell'arte e della scienza bruciato in gioventù dalla vita), che nonostante l’immenso potere vorrebbe vivere come un clochard per alleggerirsi l'anima per un dolore intollerabile. Che ci riesca o meno, non è importante. Il senso della frase, sta nell'Alto Castello (Philip Dick docet) la sua dimora fortezza disseminata di statue di persone a lui importanti. Le fattezze scolpite nella pietra chiudono il cerchio dell'esistenza in terra (o in cielo) del mito navajos che tutto torna a Gea dopo le sopraffazioni subite. Oltre il grido ambientalista (che piacerebbe a Greta Thumberg) il film sottolinea a furor di metafora le gabbie (da cui difficilmente ne usciremo) che abbiamo eretto pur di sguazzare nel benessere. Film multistrato, labirintico ed esistenziale, volendo senza alcuna spiegazione logica, trova la sua decifrazione nel finale letterario, dove finalmente l'acume intellettuale (e visionario) trova il giusto equilibrio tra la parola narrata e quella immaginata.

Giudizio ***




(Mercoledì 26 Maggio 2021)


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